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La mia estate del ‘69

C’è freddo che arriva da un maledetto spiffero tagliente e non mi fa dormire. Sono giorni che mi dico che l’aggiusterò ma poi, da coglione quale sono, me ne dimentico sempre. Così rimango a tremare con la pelle di gallina che mi fa sembrare più un piccione spennato pronto per essere cucinato che semplicemente quel che sono, un bischero in mutande davanti ad una finestra umida. Guardo fuori mentre Bryan Adams canta Summer of 69 dentro YouTube, che lo stereo di una volta non va più di moda nemmeno a casa mia.

Faccio scorrere un finto plettro su una finta stratocaster che credo di avere tra le mani. Ma mimo soltanto. Eppure mi pare di sentirla vibrare mentre canto a squarciagola una canzone che miliardi di volte mi ha accompagnato in auto sulle strade della notte. D’improvviso, quando la canzone finisce e la carica di adrenalina svanisce, galleggiano i ricordi. E penso a YouTube, all’Iphone, alla musica sul cellulare. Musica come vuoi, quando vuoi e per quanto tempo desideri. Wow mi verrebbe da dire ma poi, riflettendoci su mi è tornato alla mente quando, da ragazzino, stavo a ore con il dito premuto sul rec dello stereo per registrare una canzone appena uscita alla radio. E in quegli anni la musica per me era come una ragazza alla quale ancora non hai dato il primo bacio.  Non vedevi l’ora di ascoltarla quella canzone, perché non ti bastava canticchiarla solitario, la volevi sentire. E quando scorrevi tutte le frequenze AM ed FM e la beccavi all’inizio della prima nota, era il top. Potevi registrarla e ascoltartela milioni di volte, ancor prima che uscisse il disco. Troppo più bello, non c’è che dire.

In quegli anni accadeva spesso che andassi al negozio di dischi sotto casa di mia nonna. Dentro c’era un simpatico ragazzo dai capelli rossi. A lui canticchiavo qualche pezzo sentito in radio e del quale non ricordavo il titolo. Uscivo sempre dal negozio con un 45 giri e un 33. Ero soddisfatto, soprattutto quando nel long playing, c’era una bella copertina con tutti i testi. La musica, allora, era più magica. O forse sono solo io che sono vecchio, con la pelle rattrappita dal freddo ed una finestra rotta che mi congela la ghiandola del buonumore.

Ci penso quando, sempre dal famigerato YouTube parte Vasco. Canta “Odio il lunedì”. E la mia donna balla, davanti al computer. Mi sorride ed ho voglia di lei. Mi sento uno scemo del duemila. In boxer. Riprendo la mia finta stratocaster in mano e mando al diavolo tutti i ragionamenti sconclusionati degli ultimi venticinque minuti. “Chi troppo pensa poco vive” – rimugino ancora filosofeggiando prima di mandare tutto al diavolo e cantare la mia estate del 69. Anche senza premere il Rec.

Cuore acustico

casse

Quando mia madre decise di impiantarmi un cuore con le casse acustiche non è che ne fossi molto contento. Sentivo rimbalzare la voce dallo sterno allo stomaco, provocandomi sussulti improvvisi. C’era una sorta di aria rumorosa che si faceva strada dentro di me, estranea . Di certo non era la benvenuta. Quando suonava il rock ‘n roll però che gioia. Una scarica elettrica mi percorreva i capelli rosso fuoco, incendiati come i campi di grano in estate. E le efelidi si coloravano vistose sui piedi scalzi che correvano per la campagna. Saltellavo tra le zolle di terra mentre il ritmo aumentava i battiti del cuore. Pulsava nervoso come quando si fa l’amore. Pompava sogni. Vibrava come le corde della chitarra schiacciata sul manico da dita sicure in mezzo ad accordi stonati. Mi rimbalzava nell’anima senza farci troppo caso. Mia madre decise di impiantarmi quelle casse così, per sfizio terreno. Ero il primo sulla terra ad avere un cuore acustico. Una sala prove impiantata tra vene, sangue e carne da macello. Qualche colpo di batteria mi faceva sussultare, di notte. Ero un diverso. L’unico a dover convivere con corpo estraneo e rumoroso dentro di sé. Un apparecchio che non si poteva spengere. Non bastava staccare la luce, togliere le pile, staccare la spina. La musica partiva con lo scorrere del sangue. Se avesse smesso di suonare sarei morto. E così continuai a convivere con quello strano oggetto metallico che mi suonava dentro. Mangiavo mentre Boy George cantava Karma Chameleon. Di pomeriggio prima dell’aperitivo delle sette partiva Bryan Adams con Summer of 69. Di solito cuore acustico metteva pure il replay. A volte, quando proprio era in vena, si divertiva a mixare qualche brano. Solo la notte mi concedeva riposo. Ma io sentivo qualcosa di troppo metallico girovagarmi dentro. Avrei voluto anche io un cuore come tutti. Rosso come quelli che Cupido trafiggeva sull’onda del mito, che pulsasse per un’emozione e non sull’onda del ritmo della techno. Una notte pregai Iddio perché mi regalasse un cuore vero. Piansi e avvertii le lacrime scendere lungo la gola fino a far presa sulle casse acustiche. Ci fu un black out. Il corpo si spense, chiuse i battenti. Nessun rumore, se non quello della mia voce. Nessuna nota invasiva e invadente. Ero vuoto di scariche elettriche, di ritmi danzanti. Toccai il petto, non avvertendo più la spigolosità delle casse. Avvertii la carne aderire morbida allo sterno, la pelle rilassata. La musica adesso avrei solo dovuto ascoltarla. Avrei potuto scegliere. Quella notte avevo ospitato Betta a casa mia. Mi sentì sussultare e corse verso di me. Allargò le braccia e mi strinse. Claudio Baglioni non cantò “Questo piccolo grande amore” e io fui libero di amarla per sempre. E la musica, stavolta, non era più solo rumore.

In una piovosa mattina di ottobre, l’idea di questo racconto è arrivata dopo aver letto lo status su Facebook di Benedetto Ferrara che scriveva: “Cuore nostalgico e una traccia di nostalgia”. Vuoi leggere il suo blog Rock &Goal su Repubblica.it, clicca qui!