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Oje vita, oje vita mia

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Il calcio, i goal e gli inni intonati dai tifosi sono da mettere nella top ten della cose più belle della vita. Ma il fatto buffo è se ti salgono i brividi vedendo una tripletta,  guardando esultare un attaccante ventitreenne dell’Uruguay mentre uno stadio pullula di gente innamorata, felice, estasiata. La cosa buffa è se quell’attaccante non è quello della tua squadra del cuore e se lo stadio non è l’Artemio Franchi di Firenze ma il San Paolo di Napoli.

Strano ma vero, ieri sera, in una delle gare più esaltanti di questo campionato di Serie A gli azzurri di Mazzarri sono riusciti a far salire brividi di gioia a chiunque li abbia visti giocare contro una Juventus che era l’ombra di se stessa. Ma parlare di demeriti serve a poco quando il calcio racconta belle favole, passione, impegno, rinascita.  Napoli con mille problemi,  Napoli immersa nella spazzatura, Napoli che oggi sembra essere baciata dal sole anche quando piove, rinasce sull’erba di uno stadio.  E lo fa con un calcio che innamora dopo venti  lunghi anni. Gli spalti gremiti di pubblico sono un’eccezione che fa bene agli occhi di chi guarda mentre ovunque, in Italia, si vede solo cemento a vista, gradoni vuoti. Sessantamila spettatori hanno intonato ‘O surdato ‘nnamurato e anche a me,  da Firenze, seduta comodamente sul divano di casa mia davanti ad un televisore, è salita l’emozione, come se fossi sta lì.

Ho ripensato , come in un contropiede inaspettato, all’ultimo batticuore provato per la  mia Fiorentina, batticuore non dovuto certo né alla mega rimonta contro il Brescia di ieri né agli anni del “grande progetto” Della Valle,  bensì alla serie A riconquistata nel 2004,  in uno spareggio da cardiopalma contro il Perugia. A guidare quella squadra fatta di nomi che tutti facciamo ancora oggi fatica a ricordare, c’era Emiliano Mondonico, uno che la Fiorentina l’amava davvero. In campo scendeva ogni domenica la passione mentre si inseguiva un sogno, mentre il pallone scivolava a terra per  90 minuti di adrenalina pura. A differenza del Napoli quella non era una bella Fiorentina ma aveva qualcosa in comune con la squadra di Mazzarri: il cuore.

Quando una squadra ha piedi, cervello e cuore ha già tutto.  Ma se ai primi due togliamo l’ultimo, togliamo l’essenza vera del calcio, quella che porta ancora i  tifosi più appassionati  a popolare gli stadi, invece di guardare il calcio di Sky reso spettacolare dalla regia televisiva.  Il calcio senza i tifosi ha poco senso di esistere ed a parte la tripletta di quel talento esplosivo che è Edison Cavani, la pelle d’oca l’hanno data proprio quelle sessantamila anime in tripudio che cantavano Oje vita, oje vita mia. Non lo facevano con questa gioia sfrenata nella voce,  dai tempi di Maradona. E mentre a Firenze si fischia una squadra fantasma, non rimane altro che sognare con le vittorie altrui. Là dove il cuore, oltre al progetto, conta ancora qualcosa.

L’optional non compreso nel prezzo

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Prendo la bici appoggiata al lampione. E’ senza lucchetto perchè dove vivo io nessuno ruba biciclette. Al massimo possono arraffare arance nei campi, l’uva dai vigneti appoggiati sulle colline. La sella è dura ma ci sono abituato. Afferro il manubrio arcuato e gli porgo il volto vicino, così da diventare un tutt’uno con lei, con la mia bicicletta da corsa. L’ho vinta una notte fumosa, dopo aver giocato a biliardo. Mettendo a segno un rinterzo degno dello Scuro, facendo crollare uno ad uno i birilli.

Sono un campione e io non ci credo . Lo dicono gli altri ma io in realtà ho giocato solo per lei. Per quella bici da corsa azzurro cartazucchero, leggera come una piuma. Con lei scendo lungo la strada bianca, tra i sassi che rumoreggiano sotto le ruote. E mi fanno rimbalzare. Corro contro me stesso perchè la mia è una passione che non porta a competere con il mondo ma richiede il meglio da se stessi. Altro non voglio: se c’è un traguardo da raggiungere io ci devo arrivare, a costo di tagliare il nastro con le ruote bucate , con la catena che fuoriesce Ogni metro e mezzo di pedalate, con le mani incallite aggrappate al manubrio. E poi distendermi al suolo, stremato ma felice. E ‘vero, non ci sono trofei, non si vince niente ma il cuore esplode. La bici è come se corresse sull’olio, i pedali sono morbidi, il respiro profondo.

Non sono un campione, non lo sono mai stato. Né con la stecca in mano, nè in sella, mentre salgo e scendo lungo sentieri di pace. Non mi sentirò mai arrivato perché io sono nato per correre, fermarmi e ripartire. Non avrò mai un allievo perchè non sono un maestro, non vincerò mai niente perchè non amo vedere gli altri sconfitti. E per una volta Che vinci ce n’è sempre in Un’altra cui perdi. Ci sarà sempre uno con la steccata migliore della tua, con la giusta volata per la vittoria, con più fiato, più traiettoria, più qualcosa. E allora io gioco solo con me stesso. In un solitario nel quale vincere è solo un optional non compreso nel prezzo.

Per la foto ringrazio: “Il ventre della balena” – guarda il suo album su Flickr.com! – clicca qui