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Redditi on line: scelta dolorosa, ma utile…


Credo che sia un passaggio doloroso, nel cammino impervio che porta alla legalità, ma necessario. La proposta contenuta nella manovra economica del governo – vale a dire di mettere on line le dichiarazioni dei redditi degli italiani – mi trova sostanzialmente d’accordo.

Non parlerei, come hanno fatto alcuni, di “spionaggio”, ma di controllo sociale. Un’azione di grande trasparenza pubblica – rafforzata dalla potenza comunicativa del web – per scovare i furbi (tanti) attraverso la collaborazione degli italiani. Ricordiamoci che già adesso, pur con una procedura molto macchinosa, è possibile accedere ai dati delle dichiarazioni dei redditi. La dimensione on line darebbe a tutto questo un’evidenza civicamente “catartica”.

Delazione? Inquisizione? Gogna virtuale? In realtà hanno da temere solo quelli che nascondono, che evadono ed eludono il fisco. Io credo che sia una manifestazione ed una dimostrazione di civiltà, piuttosto. Un modo doveroso per stracciare il velo dell’ipocrisia degli evasori e di coloro che dichiarano un reddito che non rispecchia il proprio effettivo stile di vita.

Una decisione che può contribuire ad aprire nel Paese una riflessione seria su un nuovo patto sociale tra Stato e cittadini, istituzioni e imprese, identità collettiva e iniziativa privata.

Mi lascia semmai perplesso il fatto che siano i Comuni a dover svolgere questo compito di controllo, dando ai sindaci una certa discrezionalità di azione. Lo Stato centrale non dovrebbe derogare a questa funzione di attiva vigilanza diretta, o almeno dovrebbe fornire agli enti locali gli strumenti necessari all’impegno assegnato. Tra tutti la possibilità di incrociare banche dati, utenze e informazioni bancarie.

Tuttavia resto favorevole al principio generale della proposta. La maturazione di una coscienza civica – come quella personale – passa dall’assunzione di responsabilità gravose. E spesso le medicine hanno il sapore amaro.

Renzi, Fantozzi, gli impiegati e i fannulloni…


Ci vorrebbe meno ipocrisia, ma anche la capacità di essere più equilibrati nell’analisi dei fatti. Mi riferisco al tema controverso dell’impegno lavorativo dei dipendenti pubblici, spesso oggetto di durissime critiche.

L’ultima dichiarazione del sindaco di Firenze Matteo Renzi rivolta agli impiegati di Palazzo Vecchio (“Sono come Fantozzi. Anzi, chiamarli Fantozzi sarebbe per loro un complimento”) – rilasciata in un’intervista più ampia al magazine settimanale della Gazzetta dello Sport,  Sportweek - ha riacceso un dibattito che ogni volta appare male impostato o orientato secondo le diverse appartenenze partitiche, secondo uno schema classico ma alla fine dei conti poco utile alla riflessione generale: la sinistra (ma non Renzi) difende gli statali (bacino elettorale significativo per questa parte politica), la destra (Brunetta in testa) li attacca nel nome di una presunta  e ideologica superiorità economica e morale del “privato” sul pubblico.

E’ innegabile che la macchina amministrativa dello Stato, con tutte le sue ramificazioni e le sue “sacche” di resistenza, sia un luogo ideale per i cosiddetti “fannulloni”. Ma non bisogna generalizzare, nè dimenticare che esistono validissimi professionisti, a tutti i livelli, all’interno della pubblica amministrazione.

Renzi stesso dovrebbe saperlo. Così come dovrebbe sapere che attaccare in modo così indifferenziato i suoi dipendenti è un errore tattico (vai a motivarli ora, vai a fare squadra adesso…), non giustificato dalla visibilità mediatica. Sebbene al sindaco di Firenze bisogna dare il merito di saper trovare per noi giornalisti i titoli già pronti e “cucinati”, dai “rottamatori” in giù…

Ma vogliamo negare che ci siano uffici pubblici in cui i dipendenti lavorano poco o nulla? Uffici in cui le pratiche stagnano e in cui inviare semplicemente una e-mail diventa un problema? Ma allo stesso tempo: possiamo tralasciare le condizioni difficili in cui versa la macchina amministrativa, la mancanza di strumenti, la pochezza degli stimoli professionali, la fatiscenza delle sedi, l’inadeguatezza degli stipendi? Direi di no…

Solo porsi seriamente alcune di queste domande ci porta al di là della retorica di una certa difesa d’ufficio degli statali o alla rozza vena polemica di chi taglia i ragionamenti con l’accetta.

La riforma della pubblica amministrazione è una sfida politica per “giganti” e  – paradossalmente - proprio per i grandi uomini di Stato, che purtroppo - in questa fase storica – latitano. In sostanza è la Politica (con la p maiuscola, appunto) che deve trovare, come sempre, soluzioni efficaci. Perchè come afferma il grande sociologo francese Michel Crozier: “La burocrazia è un’organizzazione che non può correggere il proprio comportamento imparando dai propri errori“. Ma forse neanche i politici.

Gli apprendisti stregoni del web 2.0…


Si parla sempre più di social network o di social media. E’ innegabile. Non è solo una questione di moda, ma il segno tangibile di un reale cambiamento nella comunicazione, nel marketing, nella politica e, naturalmente, nel giornalismo. Una vera e propria rivoluzione antropologica, un aggiornamento dei linguaggi, un modo diverso per partecipare alla costruzione di una nuova “intelligenza collettiva”. Un’occasione da non mancare.

Tutto giusto, tutto vero. Il problema, però, è che spesso gli  “azzeccagarbugli” e gli “apprendisti stregoni” del web 2.0 dimenticano un aspetto fondamentale della questione: la centralità dei contenuti e l’importanza di avere qualcosa da dire. Sapendolo dire, soprattutto. E sapendo poi sviluppare questa nuova e fondamentale dimensione all’interno di una comunicazione più articolata, multicanale e integrata.

Purtroppo invece, come afferma Andrew Keen, uno dei massimi critici contemporanei della rete,  è facile imbattersi – tra utenti e (falsi) professionisti - in quello che lui ha brillantemente definito il “moderno narcisismo digitale” in un quadro generale dominato da un dilagante “dilettantismo”.

Sospesi tra autocompiacimento, egocentrismo e “selfpromotion“, la rete pullula di internauti, guru e presunti “opinion leader” pronti ad alimentare il “calderone web”; rapidi quanto incostanti nel dar vita a complesse “social media strategy” che si risolvono poi nell’apertura di profili e pagine facebook presto abbandonati oppure nell’autoconvincimento che l’unica parola chiave sia sempre e soltanto “viralizzare”.

Peccato che il successo di un sito, di un portale e, più in generale, di una strategia di comunicazione non sia solo riconducibile al “cazzeggio”, ma (anche e soprattutto) ad ore ed ore di lavoro sulla definizione dei contenuti, degli obiettivi editoriali, dell’agenda-setting e così via…dettagli?

Siamo tutti lavoratori 2.0. Però anche in questo mondo esistono due categorie tremendamente analogiche: chi lavora bene e chi lavora male. E a quest’ultimi mi viene spontaneo dire nel gioco perverso del citazionismo tanto amato da certi cultori del web: “Siete solo chiacchiere e distintivo, chiacchiere e distintivo…”.

La sottile “Linea gotica” tra fascismo e antifascismo…

 


La proposta di legge di abolire la XII norma transitoria  e finale della Costituzione che vieta  la “riorganizzazione sotto qualsiasi forma del disciolto Partito fascista”, depositata al Senato (anche dal parlamentare fiorentino Totaro che ora pare abbia ritirato la firma), mi ha lasciato davvero perplesso. Non tanto per gli aspetti tecnici e legislativi, né per le eventuali implicazioni materiali, ma per la valenza altamente simbolica racchiusa in un’azione che appare veramente fuori luogo.

Fuori luogo perché prova a minare alle radici uno dei fondamenti cardine della nostra Repubblica: la sua natura antifascista. Preoccupante perché alimenta ancora una volta un approccio revisionista alla nostra storia, secondo un ragionamento politico che negli ultimi anni ha assunto connotati sempre più forti, ambigui e pervasivi.

Il fascismo – così storicamente come noi lo abbiamo conosciuto (e l’Italia è il Paese che l’ha “inventato” ed “esportato”, dalla Spagna alla Germania) – non esiste più. Questo è vero. Ciò non toglie che possa ripresentarsi in forme e modalità differenti, pur conservando la sua essenza anti-democratica. Ecco perché occorre, anche simbolicamente, mantenere alta la guardia e la chiarezza delle posizioni.

La chiarezza delle posizioni, appunto. Quella che ci porta a dire che il 25 Aprile è la Festa della Liberazione dal fascismo e da tutte le dittature. Che i morti potranno essere anche tutti uguali (nel rispetto e nel silenzio), ma non le idee o gli ideali per cui sono morti. Che il fascismo era un sistema liberticida ed esecrabile ancora prima della promulgazione delle leggi razziali e dell’entrata in guerra dell’Italia. Che tra chi ha scelto la Repubblica di Salò e chi invece la montagna e la lotta partigiana non c’è una differenza riconducibile solo alla dimensione dell’”errore” o a quella retorica del presunto amore per la Patria offesa.

Come scrive Michele Serra: “L’antifascismo, anche anagraficamente, è più giovane del fascismo. E questo fa sperare che l’onda revisionista, prima o poi, appaia perfino a chi la solleva ben più logora, e meno dinamica, dell’antifascismo“. Speriamo. Ad ognuno il compito di decidere da che parte stare dietro la “Linea gotica”.

Scuola pubblica: il discorso di Calamandrei

 


In questi tempi grigi, spesso duri, politicamente conflittuali e barbari è facile farsi prendere dallo sconforto.  Tuttavia nel leggere oggi – nel tam-tam dei social media – le parole che ho copiato in calce e che ora vi ripropongo, ho provato un’emozione ambivalente.

Da una parte ho avvertito quanta forza rivoluzionaria possa avere un pensiero nitido e razionale, così alieno ormai a gran parte della classe politica attuale. Dall’altra sono stato colto di sorpresa nel scoprire alla fine chi avesse pronunciato queste sagge argomentazioni sulla scuola pubblica. Un fiorentino doc: Piero Calamandrei. Giornalista, giurista, politico e docente universitario. Uno dei padri della nostra Costituzione.

 Impressionante, davvero. A dimostrazione che lo storico Giambattista Vico aveva perfettamente ragione quando affermava che la storia è ciclica. Meditiamo, gente.

Facciamo l’ipotesi, così astrattamente, che ci sia un partito al potere, un partito dominante, il quale però formalmente vuole rispettare la Costituzione, non la vuole violare in sostanza. Non vuole fare la marcia su Roma e trasformare l’aula in alloggiamento per i manipoli; ma vuol istituire, senza parere, una larvata dittatura.

Allora, che cosa fare per impadronirsi delle scuole e per trasformare le scuole di Stato in scuole di partito? Si accorge che le scuole di Stato hanno difetto di essere imparziali. C’è una certa resistenza; in quelle scuole c’è sempre, perfino sotto il fascismo c’è stata. Allora il partito dominante segue un’altra strada (è tutta un’ipotesi teorica, intendiamoci). Comincia a trascurare le scuole pubbliche, a screditarle, ad impoverirle. Lascia che si anemizzino e comincia a favorire le scuole private. Non tutte le scuole private. Le scuole del suo partito, di quel partito. Ed allora tutte le cure cominciano ad andare a queste scuole private. Cure di denaro e di previlegi. Si comincia persino a consigliare i ragazzi ad andare a queste scuole , perché in fondo sono migliori si dice di quelle di Stato. E magari si danno dei premi, come ora vi dirò, o si propone di dare dei premi a quei cittadini che saranno disposti a mandare i loro figlioli invece che alle scuole pubbliche alle scuole private. A “quelle” scuole private. Gli esami sono più facili,si studia meno e si riesce meglio. Così la scuola privata diventa una scuola privilegiata.

Il partito dominante, non potendo trasformare apertamente le scuole di Stato in scuole di partito, manda in malora le scuole di Stato per dare prevalenza alle scuole private. Attenzione, amici, in questo convegno questo è il punto che bisogna discutere. Attenzione, questa è la ricetta. Bisogna tener d’occhio i cuochi di questa bassa cucina. L’operazione si fa in tre modi: ve l’ho già detto: rovinare le scuole di Stato. Lasciare che vadano in malora. Impoverire i loro bilanci. Ignorare i loro bisogni. Attenuare la sorveglianza e il controllo sulle scuole private. Non controllarne la serietà. Lasciare che vi insegnino insegnanti che non hanno i titoli minimi per insegnare. Lasciare che gli esami siano burlette. Dare alle scuole private denaro pubblico. Questo è il punto. Dare alle scuole private denaro pubblico.

Piero Calamandrei

(Discorso pronunciato da Piero Calamandrei al III congresso dell’Associazione a Difesa della Scuola Nazionale, a Roma l’11 febbraio 1950)

Armi di narrazione di massa…


Li immagino seduti attorno al Principe, convocati d’urgenza per risolvere il caso-Ruby. Preoccupati, desiderosi di trovare una soluzione al problema, ansiosi di destrutturare la realtà per trasformare tutto in fiction, diluendo l’evidenza dei fatti nel chiacchiericcio televisivo e nella confusione semantica.

Giornalisti, comunicatori, esperti di pubbliche relazioni e protagonisti del circo mediatico – razza “maledetta” a cui anche io appartengo – sono tutti scesi in campo in una chiamata alle armi che sa di scontro finale: che cosa possiamo fare? Come ideare una nuova narrazione degli eventi a favore del sultano?

Ma sì, dai, è facile. Solita ricetta: rovesciamento dei valori, svuotamento di senso delle parole, costruzione di una nuova personalità della protagonista, introduzione a tavolino di elementi magistralmente pensati per accattivarsi pietisimi e consensi. Trovato il “contenitore” – la trasmissione di Signorini, “Kalispera” – l’operazione di restyling antropologico appare fin troppo chiara.

Siamo di fronte ad un personaggio eticamente discutibile? No, è una vittima che ha sofferto per violenze passate, familiari. E’ una donna sessualmente generosa che può turbare l’immaginario cattolico? Figurati, addirittura ha avuto la forza di cambiare religione e fede, abbandonando l’Islam per abbracciare il cattolicesimo. Che coraggio. Ha vissuto una esistenza “border-line”? No, soltanto “una doppia vita” più mentale che reale in cui ha prevalso una consapevolezza che ci libera dal dubbio: “puttane si nasce, non si diventa”.

E naturalmente, alla fine, il colpo di teatro rassicurante per le coscienze che non amano le pruderie: un nuovo amore, quello che la porterà all’altare. Ultimo tassello di una sceneggiatura pensata in vitro, ad uso e consumo del tubo catodico.

Non siamo più di fronte – al termine dell’intervista di Signorini – alla lolita “Ruby”. Ora davanti a noi c’è soltanto Karima El Mahroug sulla quale la normalizzazione della nuova storia ha agito disinnescandone la cifra esplosiva. E pazienza se ci sono intercettazioni e dati oggettivi, dubbi e preoccupazioni: “vanno contestualizzati”, le carte non contano, prevale il potere immaginifico della parola priva di riscontri.

Il contro-racconto mediatico scorre su un binario diverso da quello della meccanica degli eventi. I “fattoidi” – realtà dubbie o falsamente verificate- sostituiscono i fatti. La reiterazione della nuova narrazione, nella serialità televisiva, cancella il peccato originale. Santi e puttane, verità e bugie, bene e male, pubblico e privato. Alla fine è solo una grande marmellata dal fetore nauseabondo che copre d’incanto l’odore di marcio.

Bearzot, l’italiano con la pipa


Me la ricordo eccome quella partita. Era un’estate calda del 1982. Non avevo ancora 7 anni, ma già avvertivo la passione per il calcio con tutto me stesso, anima e corpo.

Mi tremavano le gambe per l’emozione e per la paura mentre ascoltavo l’inno di Mameli davanti al primo televisore a colori acquistato dalla mia famiglia proprio per quella occasione.

Ai mondiali di Spagna l’Italia giocava con il Brasile di Zico, Socrates, Junior, Eder, Falcao…e potrei ancora continuare a sciorinare come una filastrocca questi nomi mitici che hanno fatto la storia della pelota. Finì però 3 a 2 per noi,  con tripletta di Paolo Rossi, il “redivivo”: un piccolo grande miracolo italiano.

Sulla panchina c’era Enzo Bearzot, l’uomo con la pipa, il regista silenzioso di quella vittoria che diede una gioia infinita a tutto il Paese appena uscito dagli orrori degli anni di piombo e proiettato in un nuovo boom economico da prima Repubblica.

Questo friulano schivo, introverso, di poche parole, ora se ne è andato. Era una persona perbene, un uomo dalla straordinaria umanità.

Vinse un torneo complicato in cui gli azzurri – dopo una fase iniziale imbarazzante – superarono in una cavalcata trionfale le più forti del momento: Argentina, Brasile, Polonia e Germania Ovest. Un successo netto per intensità e forza espresse in campo, mai più ripetuto, neanche in occasione di Berlino 2006, copia sbiadita di quel trionfo lontano.

Che dire? Era – come ha detto qualcuno ricordandolo oggi – “una figura di italiano popolare”. Un tecnico competente che, anche dopo la conquista della coppa nel tempio sacro del Bernabeu a Madrid, non ebbe mai comportamenti da divo, sopra le righe, da scienziato del calcio. Non finì ad insegnare all’università “coaching” o a tenere conferenze e convegni su come condurre un gruppo alla vittoria. Fu sempre discreto. Un grande italiano dal cuore azzurro e granata.

Vogliamo ricordarlo con la pipa, mentre gioca a carte con il presidente Pertini, in aereo al ritorno dalla Spagna. Due simboli, purtroppo, di un’Italia che non c’è più. Addio, “vecio”.

Firenze val bene un pranzo ad Arcore…


Sconcertante. L’incontro del sindaco di Firenze Matteo Renzi ad Arcore con il premier Berlusconi ha innescato una miriade di polemiche, un vortice di accuse e contro-accuse che sono lo specchio appannato di un’Italia allo sbando, anche sul piano prettamente mediatico. Tutti hanno torto, ma nessuno lo ammetterà naturalmente. E tutti hanno anche una parte di ragione: ma interessa a qualcuno?

E’ innegabile che un incontro istituzionale dovrebbe svolgersi in un luogo consono e coerente, anche per evitare in questo clima di odio politico facili dietrologie. Tuttavia come non riconoscere il pragmatismo del primo cittadino di Firenze ? “Berlusconi mi ha invitato ad Arcore, io vado ad Arcore”. Già qualcuno in passato aveva detto “Parigi val bene una messa”… E qui, tra le mura domestiche della villa del Cavaliere, non si parlava certo di religione…

Così come sarebbero anche giuste le accuse del vertice Pd al rottamatore Renzi, se solo non fosse palese la natura strumentale dell’attacco al discolo Matteo che non ha nessuna voglia di seguire le direttive del partito e si muove da battitore libero. Del resto, qualche settimana fa, Bersani stesso non aveva detto che in nome delle riforme sarebbe andato anche a piedi ad Arcore? E allora: di cosa stiamo parlando? Per cortesia…

E noi giornalisti? Lì a raccogliere ogni singola dichiarazione pro e contro, a costruire il caso mediatico, a vivisezionare la non-notizia, ad enfatizzare – diceva un esperto di media – il “fattoide”, non il fatto.

Possibile che da tutto questo, da questa chiacchiera continua e sconclusionata, non emerga il dato più importante, concreto e significativo, il vero contenuto politico: ma alla fine i soldi per Firenze ci sono? Sì o no? Pecunia non olet…

Mondi paralleli in Terra di Toscana…


Due realtà che distano solo una cinquantina di chilometri, ma che racchiudono due mondi totalmente opposti quasi fossero collocati in due differenti galassie. Di cosa sto parlando? Di due facce della stessa medaglia: una Toscana arroccata (e proprio il caso di dirlo) nel quadro rassicurante di un passato da cartolina e di un altro pezzo di regione in cui niente è più come prima.

Mi sono trovato, a distanza di pochi giorni, a scoprire di fatto da una parte il silenzio ancestrale di Montefioralle, un piccolo borgo medioevale nel cuore del Chianti fiorentino ad un passo da Greve, e dall’altra il caos vitale e multietnico di tutta quell’area a nord di Firenze (Osmannoro) in cui è facile perdersi tra centri commerciali, palazzi, aziende, strade e asfalto.

Sarebbe troppo facile, ma forse anche inutile, stilare una classifica di merito (o puramente estetica) tra queste due dimensioni che potrebbero viaggiare parallele senza mai incrociarsi da qui ai prossimi anni o trovare – chi può dirlo – in una sintesi colorata un nuovo equilibrio tra centro e periferia. Ma in queste poche righe vorrei soffermarmi solo su due immagini, che ho colto dal cuore di queste due esperienze ravvicinate e che simboleggiano per me la globalizzazione inarrestabile che stiamo vivendo.

A Montefioralle – dalle atmosfere così lontane dalla routine quotidiana, tra quelle vie tortuose – il silenzio era rotto soltanto dai turisti inglesi che avevano “conquistato” il borgo conservatosi integro nei secoli. Uno spazio accogliente. Una terra così capace di intercettare idealmente e culturalmente le aspettative di un’Europa ormai da decenni di casa tra questi cipressi e queste colline da apparire quasi “straniera”, aliena (almeno alle orecchie). Lì invece all’Osmannoro, in quel fast-food assordante, ho visto decine e decine di occhi a mandorla, ma ho ascoltato una sola lingua fatta propria: l’italiano.

Mi è venuto naturale associare nei miei pensieri questi due momenti, vederli legati da un filo rosso e sottile, forse perchè ho avvertito con forza, una volta ancora, l’evolversi tumultuoso, disomogeneo e irreversibile della multiculturalità.

Quattro anni per intoscana.it…il portale è maturo

Quattro anni di vita digitale per intoscana.it, quattro anni  intensi per un portale che costituisce sempre più una realtà web molto particolare, unica nel suo genere, non soltanto in Toscana. Un portale informativo e generalista, una testata giornalistica dalla forte dimensione multimediale, uno sguardo differente dai circuiti mediatici tradizionali, un prodotto editoriale costruito pezzo dopo pezzo per “fare sistema”.

Una piattaforma  – resa viva e pulsante dai contenuti che la popolano – capace di racchiudere le molteplici identità di questa regione, tra eccellenze e realtà quotidiana, grandi eventi, storie e mondi che nella comunicazione multimediale di intoscana.it trovano – ci auguriamo - una nuova forma espressiva e di narrazione.

E’ stato bello poter dare un ulteriore senso a questo traguardo all’interno di “ToscanaLab”, la manifestazione promossa e organizzata da Fondazione Sistema Toscana per fare il punto sulle nuove frontiere del web 2.0. Un traguardo – 28 giugno 2006/28 giugno 2010 - “celebrato” non solo simbolicamente, ma “onorato” con il lavoro di tutta la redazione attraverso uno sforzo concreto con cui abbiamo provato a raccontare, in modalità live e con tantissimi ospiti, le disparate anime di un portale di sistema al servizio del territorio.

La cornice suggestiva della Gipsoteca dell’Istituto d’Arte di Firenze – che  possiede la più interessante raccolta di modelli in gesso in Italia, specialmente di modelli dell’arte del rinascimento toscano (su tutti il David) – è stata quindi una location ideale per una “trasmissione-maratona” in cui sono stati affrontati molti dei grandi temi che alimentano ogni giorno la dimensione editoriale di intoscana.it. Dall’enogastronomia allo sport, dalla cultura all’innovazione, dal lavoro all’arte. Ospiti, interviste, video e contenuti hanno arricchito un “intoscanalive” che non voleva essere autocelebrativo e autoreferenziale, ma un modo (forse ambizioso) di intrecciare sul palco della Gipsoteca la dimensione virtuale della comunicazione web con il mondo reale, la realtà vissuta con quella raccontata.

Lanciando al pubblico e alla rete un messaggio (speriamo) chiaro: intoscana.it vuole illuminare questa regione attraverso i linguaggi multimediali e digitali della rete. In un’ottica di servizio, aperti alla partecipazione e alla costruzione condivisa di una grande “porta di accesso” alla conoscenza e alla comprensione di questa terra così carica di suggestioni e di potenzialità.

Da qui, da questi quattro anni, da questa crescita tecnologica e da questa maturità redazionale riparte www.intoscana.it.