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La valigia avida di sogni

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“Piove sul bagnato” -  rimuginava mio nonno seduto davanti ai vetri della finestra macchiati di gocce d’acqua battente.  Erano almeno tre giorni che pioveva ininterrottamente e non c’era nient’altro da fare che starsene chiusi in casa, con il camino acceso. Mia nonna lavorava a maglia per raggranellare qualche quattrino , che d’inverno faceva più che comodo e io altro non avevo  da fare che passare tutti i miei pomeriggi in soffitta.  Lì c’erano i giochi di mio padre, per lo più fatti in casa da mio nonno  che era un bravo artigiano e un ottimo intagliatore. Il mestiere l’aveva imparato da suo padre chissà quanti anni fa  e se ne era innamorato.  A terra,  poggiate nel mezzo della stanza su assi di legno, c’erano lunghe figure, colorate di rosso e di nero e occhi fatti da due semplici puntini buttati lì a caso. Assomigliavano a dei carabinieri, con alti cappelli che parevano potessero toccare il cielo.  Di lato, appoggiata alla parete c’era una vecchia sedia a dondolo e un abbozzo di capanna dove per Natale montavano il presepe. Era tutto intriso di polvere stantia, anche qualche bambola di mia zia, morbida di pezza cucita a mano. Ogni tanto provavo a frugare nella cassapanca anche se questo mi era stato vietato. Entrare nella soffitta era come volare dentro un mondo magico, dove ogni giorno potevo scoprire qualcosa di nuovo. Mi piaceva stare lì, da solo. Salire i due piani che dividevano la grande sala dove mangiavamo tutti insieme dalla zona riservata alle camere. Saltavo gli scalini di due in due nonostante gli strilli di mia nonna, fino a che non mi trovavo davanti la porta della soffitta. Pesa, con il chiavistello vecchio di ruggine e i tarli che l’avevano quasi divorata. A volte prima di entrare mi avvicinavo piano, senza aprirla. Attaccavo l’occhio sinistro ad uno dei grandi buchi, stretti e lunghi come feritoie, che si erano creati nel tempo. Chissà da quanto era lì quella porta. Nella casa del nonno come minimo c’erano nati anche il padre di mio nonno e non so di preciso quanti antenati della mia famiglia. Noi di cognome facciamo Merletti, proprio come quelle trine che piacciono tanto a mia madre e che mette sul tavolo quando arrivano gli ospiti.  Quando guardavo dal buco della porta speravo di trovare qualcosa di diverso. Ansimavo, nell’attesa che succedesse qualcosa di speciale, di inaspettato. Invece tutto era semplicemente inerte, baciato da un silenzio di pace. Quel pomeriggio non giocai con nessuno dei trabiccoli di legno costruiti da mio nonno. Rimasi semplicemente a guardare la pioggia incessante, ritmica che scendeva cadenzata riempiendo l’aia di acqua. Dapprima si crearono delle pozze, poi pian piano la pioggia invase il cortile di fronte a casa. Credevo di essere circondato da un lago. Intorno solo acqua, colori grigi e rumori di cielo arrabbiato. Mio nonno dormiva mentre la legna scoppiettava. Io rimasi un bel po’ con le mani chiuse appoggiate al mento, a guardare fuori. Non c’era la tv che avevo nella casa di città a farmi compagnia e neppure il mangiadischi rosso che mi raccontava la favola del Gatto con gli Stivali.  C’erano solo campi infiniti e case lontane, sperse all’orizzonte, vestiti lisi di lavoro e mani  spezzate dal freddo. Nient’altro.  Solo gambe per camminare lesti e mani forti  per lavorare la natura bizzosa. C’erano però i sorrisi di mia nonna e i suoi seni grandi dove poggiavo tenero la testa per addormentarmi.  Nel sonno sentivo i discorsi del nonno che si lamentava perché la stagione era stata cattiva. Meditava di andare lontano, in qualche paese fuori dall’Italia a fare fortuna. Io tenevo gli occhi chiusi e ascoltavo. Raccontava del Ballini, il proprietario del pezzo di terra accanto al suo che aveva vinto al Lotto. “Almeno lui ha smesso di lavorare, anche se, Anita lo sai, lì è piovuto sul bagnato.”  Mia nonna faceva grandi respiri ma non rispose.
“Che devo fare io? Devo andare a rubare?  -  Insistette alzando la voce – Che devo fare per dare un futuro a questo piccolo cristiano? In che mondo crescerà?” -  E si mise la testa tra le mani.
“Si sistemerà tutto “ – disse poi lei, con un filo di voce.

“Sì, prega pure il tuo Dio che tutto si sistemi ma ne dubito” – arrancò ancora rabbioso.

Quella sera cercai di non esagerare con le fette di pane con il prosciutto e per tutta la cena osservai il nonno e la nonna. Per la prima volta capii  come si sentono i poveri. Guardai dentro la faccia di chi non ha niente. Sarebbero stati felici se solo non fosse piovuto così tanto, se i campi fossero stati fertili di frutti e se io li avessi aiutati invece che stare a sognare chiuso in soffitta. Da domani tutto sarebbe cambiato. Io avrei rivoltato il mondo e avrei reso la mia famiglia felice per sempre. Avrei giocato al Lotto come il Ballini, i soldi li avevo nel salvadanaio di coccio. Avrei vinto così tanto denaro da comprare i campi di tutto Campogrosso. E mio nonno avrebbe messo il vestito buono, la mamma avrebbe inondato la casa di merletti profumati di bucato e mio padre avrebbe lasciato il lavoro in fabbrica. Ci sarebbe stato il sole ogni giorno e non saremmo dovuti andare via dall’Italia. Corsi fuori e con la vecchia scopa di saggina iniziai a spazzare la pioggia che inondava l’aia. Mia nonna corse fuori, prendendomi per un pazzo scellerato. Io ridevo. Ridevo e ancora ridevo, con la mia valigia avida di sogni tra le mani.

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Per la foto della valigia e del mimo ringrazio  lucam, andate a vedere il suo album su flickr!

La suggestiva immagine della pioggia è invece di Paf-Triz, anche questa presente su flickr a questo link

“Piove sul bagnato”, la frase con la quale ho iniziato il mio racconto è anche il titolo di un film del regista toscano Andrea Bruno Savelli, da qualche giorno nelle sale. Una frase, un modo di dire, che mi hanno ispirato questo racconto. Quindi…grazie Andrea! Vuoi vedere il suo profilo su Facebook e vedere il trailer del suo film? Clicca qui!

Agosto e il rumore sordo dei ricordi

Finalmente ero felice mentre guidavo lungo la provinciale che portava ad una vecchia cascina lungo le rive dell’Adda. Il sole luccicava trascinando ombre bagnate lungo la strada e io respiravo l’aria calda dell’estate. Amavo anche la vecchia auto rumorosa che mi accompagnava in quel viaggio, l’assenza dell’aria condizionata, i finestrini che andavano tirati giù a mano, a fatica. Era tutto come un tempo. Anche l’odore dei campi a riposo, gli alberi in fila che apparivano ogni tanto tra la pianura tagliata da vie infinite di asfalto cocente, deserte e corrose. All’improvviso non vidi più niente davanti a me se non ricordi. La lucentezza dell’infanzia, le lunghe corse in bicicletta, le ginocchia sbucciate, il sapore fresco del latte nei bicchieri di vetro spessi e pesanti, il tavolo grande nell’aia. E tutta quella gente, il grembiule della nonna, il suo sorriso mentre seminava farina sull’immenso tagliere di legno alto, concavo del tempo passato. La panca dove stavano seduti i vecchi, poggiata al muro rosso, acceso, caldo come la terra d’intorno. Quella panca sotto la quale mi rimpiattavo quando giocavo a nascondino. I tracciati di gesso sul marciapiedi intorno alla casa segnavano quadrati dove saltare a zoppino senza perdere l’equilibrio. Gli animali che mi guardavano con occhi amichevoli e che salutavo con la mano alla fine dell’estate ,quando tornavo in città, allontanandomi con questa stessa auto carica di valigie di pelle spessa, coperta di polvere ed emozioni.

Poi, all’orizzonte si affacciò la Cascina. Grande, dalla forma regolare, con due bassi archi laterali. Lì un tempo stavano gli attrezzi dei campi, le vanghe, i rastrelli, i picconi. Quando arrivai il cuore era in gola, schizzato in alto fino a bloccarmi il respiro. Erano passati trent’anni e la Cascina era tinta di nuovo. Qualche secchio con la vernice era ancora lì e poco vicino se ne stava un pennello inzuppato nell’acqua perché non si indurissero le setole. La porta chiusa, tuffata di turchese sapeva di mare. Non seppi resistere e mi lasciai cadere all’indietro, nell’erba soffice. Mi solleticò la pelle e i pensieri. Piansi. Per quelle atmosfere delle quali non mi potevo più riappropriare, per quei volti che mi avevano lasciato lì, da solo, a ricordare. Rimaneva solo quella Cascina profumata di nuovo e dentro niente. Solo rumore di silenzio, qualche ruga in più sul cuore e occhi troppo stanchi per fissare a lungo l’orizzonte. Gambe pesanti per poter correre ancora lungo i campi. E una mente sempre più lucida che faceva apparire ferocemente limpidi i ricordi di un passato e di una vita che adesso stava solo a guardare.

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Grazie a Marco Vigiani per l’idea del racconto, scaturita dal suo stato su Facebook. “Come corre il tempo…è già agosto” – ha scritto oggi. Da questa frase è nato questo breve scritto, spero vi sia piaciuto. E’ un pò triste, lo so! ;)

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Per la foto ringrazio Flickr e Sunset Road: vuoi vedere il suo album? Clicca qui!