Ho voglia di Natale. Di quando il mondo si ferma e non ce n’è per nessuno. Di negozi chiusi, di poche auto, di serenità. Vera o presunta. Di luci che brillano ovunque e ti finiscono gli occhi, di diapositive da proiettare dopo il pranzo a ricordare ieri. Ho voglia di risate che sanno di famiglia e di quegli abbracci che sono più calorosi del solito. E di te che mi apri la porta mentre fuori è inverno e sei bella come sempre anche quando cucini. Prepari i crostini e la maionese mentre pian piano arrivano gli altri. A casa tua c’è calore anche se non c’è il caminetto, se non c’è un fuoco che colora d’arancione. E di rosso. Noi insieme – nonostante tutto, nonostante le litigate, la rabbia, il risentimento, le improvvise gelosie, le incomprensioni e le paure– ci siamo sempre divertiti. Come quando hai preso in affitto quella casa al mare sopra la rosticceria del Lido. Ero piccola ma lo ricordo come se fosse adesso. L’umidità penetrava aggressiva tra i fili di lana del maglione lavorato ai ferri da Zia Tina e gocciolava lungo le mattonelle della cucina. Il riscaldamento non funzionava. Ma le risate, sotto ai pannolani pesanti, di notte quando ancora non c’erano i piumoni, non ce le toglieva nessuno. E quelle lenzuola di cotone così fredde che ci stringevamo tutti quanti per trovare un po’ di tepore. Quella casa di fortuna, una grande fregatura. Eppure eravamo felici. Felici con niente. Era Natale. Le mareggiate regalavano pezzi di legno dalle forme più strane, adagiati sulla battigia, corrosi dal salmastro, domati dall’acqua. Io li raccoglievo, mentre mio padre mi teneva per mano. Tu eri lì, con Jacopo stretto al seno, piccolo piccolo. E poi Monica, Betty, la mamma, il nonno e i suoi lunghi cappotti, quelle mani grandi che alzava al cielo per salutare le persone, per catturare il vento. C’era nebbia e le luci parevano immense, a tratti dense e poi leggere. Impalpabili. I grandi dicevano che il Natale fa tristezza. A me invece sembrava bellissimo. Eravamo tutti insieme. C’eri tu.
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Nessuna passione è inutile, nessun amore è sprecato scriveva Paulo Coelho ne La Strega di Portobello. Andrebbe spiegato a chi dice speriamo di vincere domenica contro la Juve così “la smettono di rompere le balle”. Andrebbe spiegato a chi parla di progetto ma non regala sogni. A chi pensa che Fiorentina – Juventus sia solo una toppa per riparare a una stagione grigia come il cielo di Milano. A queste persone vorrei regalare un pò di colore viola scuro sul cuore. Vorrei fargli provare per un attimo il brivido di emozione che serpeggia dallo stomaco alla gola quando parte l’inno viola al Franchi. Siete mai stati in Curva? Avete mai sentito il freddo attanagliarvi le membra mentre si perde e si contano i minuti sperando di pareggiare i conti? Avete mai pianto per una maglia che sentite incollata al corpo come una seconda pelle?
Non sta certo a me dare risposte, è vero. Però quei brividi, quel freddo, quella gioia, quell’emozione li ho provati e per me la Fiorentina anche così piccola, provinciale e grigia è una passione che non è certo inutile. E l’amore per la tua squadra non è mai sprecato. Sarà per questo che la rabbia mi ribolle come una pentola a vapore adagiata sul fornello sentendo freddezza, assenza di fervore, complicità. Una Fiorentina senza enfasi enfasi, agitazione, tormento, speranza, attesa. E’ rabbia.
Fiorentina – Juventus non è una partita come tutte le altre, mettetevelo in testa voi che calcate quel campo che è sacro, quell’erba verde appoggiata ai piedi di Fiesole, proprio sotto la Torre di Maratona.
Quel campo ha visto tante battaglie. Ha visto persone, vittorie e sconfitte. Ha sentito la pesantezza dei tacchetti, la potenza di un goal, la gioia di uno stadio impazzito quando si è vinto, con la Juve in casa, l’ultima volta. Era il 1998. In campo c’era il Re Leone. Sembra una vita fa. Sembra un’altra storia. Quando “correva” il pallone e si “rincorreva” una passione, quando segnare era amore. E niente era sprecato. Neppure quei sogni che vengono definiti “pallosi”. Pallosi sì, ma veri, sanguigni, forti, sinceri.
Non basta uno sciarpone viola al collo per dimostrare che la Fiorentina non è una passione sprecata. Non basta un buon markerting per far innamorare i tifosi. Firenze è passionale. E anche criticona, è vero. E’ lamentosa. Esigente. Ma è sincera. Innamorata. Ed è Viola. Viola scuro.
Una Firenze che non ama i colori annacquati. Ricordatevelo domenica quando scenderete in campo con una maglia sul petto che, per chi sta sugli spalti, vale più di un contratto milionario. Ricordatevelo quando di fronte a voi correranno uomini con la maglia a strisce, in bianco e nero.
No, Fiorentina – Juventus non è una partita come tutte le altre. Annusate l’aria fuori dal Franchi. Guardatevi intorno. Ascoltate la Fiesole. E giocate per una maglia che non è un amore sprecato. Per Firenze non lo è mai stato.
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Le prime sere di primavera allentano i pensieri. Si fanno lunghi, così che tu possa analizzarli nel profondo. Sono pensieri buoni, da assaporare gustandoseli tutti in questa notte che di buio non ha niente. La lampada dell’Ikea fa luce solo sullo schermo del pc e fuori non fa freddo. E’ solo primavera, finalmente. Ogni anno, quando aprile sta per arrivare, le giornate si fanno più lunghe e l’aria profuma di nuovo, mi sento una persona diversa. Come una crisalide che esce dal guscio. Che ha voglia di diventare farfalla. E volare. E’ una bella sensazione. Sono quei giorni in cui puoi sognare, sono una chiacchierata che ti rasserena, un bicchiere di vino con gli amici. Sono una canzone da cantare. Sei tu.
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C’è freddo che arriva da un maledetto spiffero tagliente e non mi fa dormire. Sono giorni che mi dico che l’aggiusterò ma poi, da coglione quale sono, me ne dimentico sempre. Così rimango a tremare con la pelle di gallina che mi fa sembrare più un piccione spennato pronto per essere cucinato che semplicemente quel che sono, un bischero in mutande davanti ad una finestra umida. Guardo fuori mentre Bryan Adams canta Summer of 69 dentro YouTube, che lo stereo di una volta non va più di moda nemmeno a casa mia.
Faccio scorrere un finto plettro su una finta stratocaster che credo di avere tra le mani. Ma mimo soltanto. Eppure mi pare di sentirla vibrare mentre canto a squarciagola una canzone che miliardi di volte mi ha accompagnato in auto sulle strade della notte. D’improvviso, quando la canzone finisce e la carica di adrenalina svanisce, galleggiano i ricordi. E penso a YouTube, all’Iphone, alla musica sul cellulare. Musica come vuoi, quando vuoi e per quanto tempo desideri. Wow mi verrebbe da dire ma poi, riflettendoci su mi è tornato alla mente quando, da ragazzino, stavo a ore con il dito premuto sul rec dello stereo per registrare una canzone appena uscita alla radio. E in quegli anni la musica per me era come una ragazza alla quale ancora non hai dato il primo bacio. Non vedevi l’ora di ascoltarla quella canzone, perché non ti bastava canticchiarla solitario, la volevi sentire. E quando scorrevi tutte le frequenze AM ed FM e la beccavi all’inizio della prima nota, era il top. Potevi registrarla e ascoltartela milioni di volte, ancor prima che uscisse il disco. Troppo più bello, non c’è che dire.
In quegli anni accadeva spesso che andassi al negozio di dischi sotto casa di mia nonna. Dentro c’era un simpatico ragazzo dai capelli rossi. A lui canticchiavo qualche pezzo sentito in radio e del quale non ricordavo il titolo. Uscivo sempre dal negozio con un 45 giri e un 33. Ero soddisfatto, soprattutto quando nel long playing, c’era una bella copertina con tutti i testi. La musica, allora, era più magica. O forse sono solo io che sono vecchio, con la pelle rattrappita dal freddo ed una finestra rotta che mi congela la ghiandola del buonumore.
Ci penso quando, sempre dal famigerato YouTube parte Vasco. Canta “Odio il lunedì”. E la mia donna balla, davanti al computer. Mi sorride ed ho voglia di lei. Mi sento uno scemo del duemila. In boxer. Riprendo la mia finta stratocaster in mano e mando al diavolo tutti i ragionamenti sconclusionati degli ultimi venticinque minuti. “Chi troppo pensa poco vive” – rimugino ancora filosofeggiando prima di mandare tutto al diavolo e cantare la mia estate del 69. Anche senza premere il Rec.
Muove il vento le foglie del mio giardino e la loro ombra sul pavimento di casa le fa assomigliare ad acqua increspata. Sembrano foglie di limoni baciate di sole e il cielo mi appare come un’immensa distesa di mare. Sono in città e agosto sta finendo. Le mie ferie sono concluse, il frigo è vuoto e l’amore è ancora troppo lontano, almeno quanto la prossima estate. Guardo fotografie a colori che diventano dettagli da poter ingrandire sullo schermo del portatile, per ricordare meglio cosa ne è stato di ieri. Sul tavolo di casa finte margherite galleggiano in un vaso pieno zeppo di sabbia e mi ricordano che dovrei passare davanti ad uno specchio e spogliarmi delle cazzate che mi grondano addosso come pioggia insolente.
Ho solo ventisei anni. E i miei genitori quando sono nata hanno avuto la geniale idea di chiamarmi Gioia. Peccato che io, a differenza ciò che speravano per me, non sono affatto felice. Non so nemmeno cosa sia la gioia. Conosco piuttosto la malinconia devastante e impetuosa, vivo una felicità fatta di attimi, che non conosce spazi duraturi ma solo sfavillanti momenti di breve durata. Che non superano il tempo di un film, di una cena, dei fuochi arficiali. Che non vanno oltre il tempo di un esame, di una vacanza, di un sogno. E poi puf! Diventano niente. Crollano come fondamenta deboli, si sgretolano come la pelle bruciata dal sole.
“Gioia tesoro – legati quei capelli che ti si riversano sugli occhi. Hai un’aria così trasandata”. Sento la voce di mia madre, appena affacciata sul terrazzo. Annaffia le piante, getta via le foglie secche. Passo un dito al centro della montatura degli occhiali, per avvicinarli di più al naso. Per vederci chiaro mentre gli occhi affogano di lacrime. La voce di mia madre mi irrita in quel giorno così perfetto. Sarebbe un giorno bellissimo se solo fossi felice. C’è il fresco, il sole, c’è un aria bella da respirare. Ho ventisei anni. Ventisei. Che faccio qui, immobile di paura, avara di sogni? Aspetto un amore troppo lontano perché possa tornare. E mi accontento di niente, lasciando che il vento asciughi le guance bagnate e che il tempo rimetta insieme brandelli di cuore spenti di battiti.
“Gioia, cosa vuoi per cena stasera?”. Gioia? Gioia?!”.
Ho fame di felicità. Ma questo, mamma, non posso dirtelo.
Per la foto ringrazio Bimba81, andate a vedere il suo album su Flickr: cliccate qui!!!
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