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Era settembre

Sei bella, non c’è che dire. Sei bella mentre mi guardi, con la pelle che brilla di sole e le rughe morbide appoggiate sul volto. Sei bella con quel cappellino da spiaggia e le sopracciglia curate, con le labbra rosse di ciliegie, brillanti come il mare che ami. Sembri una lucertola, con gli occhi socchiusi vicino al cielo di agosto. E’ il 2008 e la tua sedia da regista è  sulla spiaggia, ‘che a te non sono mai piaciute le sdraio ed i lettini. Ogni tanto mi guardi e poi sorridi mentre ti faccio una foto. Ne faccio tre o quattro perché oggi mi piaci proprio tanto. La collana verde risalta sull’abbronzatura che sembra essere nata con te e credo  che oggi, sia uno di quei giorni nei quali potresti far girare il mondo sopra a un dito.

Ti chiedo perché ti sei truccata per venire sulla spiaggia e tu mi dici che devi incontrare una vecchia conoscenza, la proprietaria di un hotel del Lido. Mi dici anche che lei ha ti ha sciorinato, nell’ultima vostra telefonata, tutti i successi ottenuti negli ultimi anni da lei e dai suoi figli. “Vuoi farti vedere in forma anche tu eh?” ti chiedo mentre mi fai cenno di sì con la testa.

Non ne hai bisogno sai – vorrei risponderti – che tu sei una delle donne più affascinanti sulla faccia della terra anche senza aver vinto mai niente. Lo so che tu avresti voluto che la tua creatività fosse esplosa anche fuori dalle mura di casa, che il talento fosse divenuto un lavoro, che le poesie che scrivi potessero dare un senso vero alle parole ed essere “ascoltate” da qualcuno”.

Ma non ti dico niente.

Così parliamo del più e del meno. Tiri fuori un pezzo di focaccia dalla borsa, come quando avevo cinque anni e me la porgi, strappandone un pezzo. C’è anche la frutta mi dici, prendila, è fresca. Appoggi la mano sul mio braccio e mi accarezzi, con il dito pollice che si muove a destra e sinistra, con movimenti regolari. Al polso hai l’orologio di tuo padre, non te ne separi mai e io lo guardo mentre le lancette dorate luccicano sotto il sole delle tre e mezza.

Luccicavano anche dalle foto scattate in quel giorno e che ho riguardato  ieri sera, ingrandendole più volte ed in più punti per ricordarmi meglio di te, oggi che non ci sei più. Per perdermi su ogni espressione, particolare, su ogni accenno di sorriso, sui tuoi occhi che con uno sguardo dicevano tutto. Mancava solo la tua voce, ma tu eri lì comunque, io lo so. Ti ho detto buonanotte e ti ho mandato tre baci, come mi hai chiesto l’ultima volta. Era settembre.

A Tecla.

A te, che piaceva tanto questa “Canzone”

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Brandelli di cuore

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Muove il vento le foglie del mio giardino e la loro ombra sul pavimento di casa le fa assomigliare ad acqua increspata. Sembrano foglie di limoni baciate di sole e il cielo mi appare come un’immensa distesa di mare. Sono in città e agosto sta finendo. Le mie ferie sono concluse, il frigo è vuoto e l’amore è ancora troppo lontano, almeno quanto la prossima estate. Guardo fotografie a colori che diventano dettagli da poter ingrandire sullo schermo del portatile, per ricordare meglio cosa ne è stato di ieri. Sul tavolo di casa finte margherite galleggiano in un vaso pieno zeppo di sabbia e mi ricordano che dovrei passare davanti ad uno specchio e spogliarmi delle cazzate che mi grondano addosso come pioggia insolente.

Ho solo ventisei anni. E i miei genitori quando sono nata hanno avuto la geniale idea di chiamarmi Gioia. Peccato che io, a differenza ciò che speravano per me, non sono affatto felice. Non so nemmeno cosa sia la gioia. Conosco piuttosto la malinconia devastante e impetuosa, vivo una felicità fatta di attimi, che non conosce spazi duraturi ma solo sfavillanti momenti di breve durata. Che non superano il tempo di un film, di una cena, dei fuochi arficiali. Che non vanno oltre il tempo di un esame, di una vacanza, di un sogno. E poi puf! Diventano niente. Crollano come fondamenta deboli, si sgretolano come la pelle bruciata dal sole.

“Gioia tesoro – legati quei capelli che ti si riversano sugli occhi. Hai un’aria così trasandata”. Sento la voce di mia madre, appena affacciata sul terrazzo. Annaffia le piante, getta via le foglie secche. Passo un dito al centro della montatura degli occhiali, per avvicinarli di più al naso. Per vederci chiaro mentre gli occhi affogano di lacrime. La voce di mia madre mi irrita in quel giorno così perfetto. Sarebbe un giorno bellissimo se solo fossi felice. C’è il fresco, il sole, c’è un aria bella da respirare. Ho ventisei anni. Ventisei. Che faccio qui, immobile di paura, avara di sogni? Aspetto un amore troppo lontano perché possa tornare. E mi accontento di niente, lasciando che il vento asciughi le guance bagnate e che il tempo rimetta insieme brandelli di cuore spenti di battiti.

“Gioia, cosa vuoi per cena stasera?”. Gioia? Gioia?!”.

Ho fame di felicità. Ma questo, mamma, non posso dirtelo.

Questo racconto mi è stato ispirato da due parole scritte da un amico di Facebook: Luca La Rocca. Vuoi vedere il suo profilo? Clicca qui!

Per la foto ringrazio Bimba81, andate a vedere il suo album su Flickr: cliccate qui!!!

L’isola verde

 

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Non ho mai amato il mondo tirato a lustro, né le luci che nascondono nefandezze. Ho sempre creduto che le cose belle stessero nei posti meno noti, negli angoli lontano dal caos, dove non c’è troppo rumore. Dove si respira piano e si procede a passo lento. Meditavo su queste cose mentre un paio di infradito consunti mi accompagnavano per i vicoli dell’isola verde. Il sole filtrava tra i muri delle case corrose dal salmastro e il vento morbido mi velava i pensieri. Era il giorno del mio compleanno ed avevo scelto quell’isola per scappare lontano. Non avevo soppesato troppo su cosa mi avrebbe offerto quel luogo. Volevo solo andarmene da casa mia per una settimana, lasciare le bollette da pagare sul mobile vicino alle chiavi dell’auto, dare un ultimo sguardo alla scrivania sulla quale riversavano pile di fogli sui quali lavorare e andarmene. Staccare l’interruttore della luce, chiudere internet, vestirmi di niente e partire. L’isola verde era il mio posto nel mondo. Me ne accorsi appena arrivata, scesa dall’aliscafo che aveva tagliato veloce le acque del Golfo di Napoli per portarmi lì. In quel pezzo di terra baciato dal sole, fertile come la campagna toscana, dove i fichi crescono grassi arrampicandosi sul Monte Epomeo, dove i pomodori rossi incendiavano di colore i miei occhi vogliosi di annusare quel mondo sconosciuto. Vecchie donne rugose vendevano frutta per strada, appoggiata in cassette di legno che sapevano della mia infanzia. Mi ricordavano Camaiore e il sapore succoso delle frutta, i pesci che correvano tra le acque del Teneri, i girini a cui davo la caccia con mio cugino Flavio. Chiusi gli occhi mentre i colori dell’Isola mi venivano incontro. Inspirai lentamente così che il profumo del mare mi tornasse dentro, come cinquant’anni fa. Le campane delle chiese suonavano tutte insieme, riecheggiando dal porto al Ponte fino al Castello Aragonese. Accompagnarono il mio cammino fino a quando non mi appoggiai sul muro rosa di una casa che scendeva alla spiaggia dei Pescatori. La nuca strusciava sull’intonaco sporco di mare mentre il caldo mi bagnava la mente. Mi lasciai scivolare a terra, con le mani che abbracciavano le ginocchia e rimasi lì, ad ascoltare quel mondo. Fatto di voci, di qualche motorino truccato a dovere per correre meglio verso Serrara Fontana, di gabbiani adagiati sull’acqua, di rumore di ricordi mischiato alla gioia di essere lì. E di non desiderare altro se non quello, nel giorno del mio compleanno. Ripresi a camminare fino a che non arrivai a incrociare una traversa di Via Roma, la strada che unisce il porto dell’isola al Ponte. Entrai in Via Francesco Buonocore e mi diressi verso la spiaggia. Lì un piccolo ristorante catturò il mio sguardo. Era così lontano dall’atmosfera luccicante dei locali del porto, dai camerieri che come saette ti si avventano contro sciorinandoti il menu a memoria, accanto a pile di pesce fresco appoggiate su ghiaccio tritato. Assuntina se ne stava appena fuori dal locale, con il grembiule legato in vita e un sorriso vero stampato sul viso. Mi ispirò subito simpatia e le chiesi se potevo accomodarmi. Scelsi di stare all’aperto, così da avvertire il profumo del mare. D’intorno solo case, vecchi i cui volti sporgevano tra verdi persiane sgretolate, cani che passeggiavano solitari. Silenzio di pace, armonia terrena. Mi sentii subito a mio agio, accomodata su una sedia di plastica, proprio sotto al tendone a strisce bianche e blu dove si leggeva a chiare lettere il nome del ristorante. Sorseggiai dell’ottimo vino bianco, fresco come l’acqua del mare al mattino e gustai i sapori dell’isola verde. Mi rallegrarono occhi, cuore e palato. Mi regalarono emozioni per come erano stati cucinati, sapientemente accostati, dosati con maestria di massaia. Gli spaghetti San Pietro erano un’esplosione di colori tanto che quasi provai dispiacere nel mangiarli. Il nero delle cozze spiccava tra le foglie del basilico e i pomodori ammezzati, lasciati appena appassire in padella. Le vongole aperte come fiori di mare mi ricordavano le telline strette e lunghe che mio padre pescava con la rastrelliera, al mattino presto, sulle spiagge del Lido di Camaiore. Rimasi lì ben oltre il tempo di pranzare. Assuntina mi parlò dei suoi piatti, della caponata come viene fatta in Campania, del suo amore per Firenze, del coniglio all’ischitana, di quel pezzo di mondo che sorge ai piedi del Monte Epomeo, aggredito nei secoli da Saraceni e Turchi, fecondo di acque preziose, di una natura rigogliosa e amica. Ero ancora seduta vicino ad Assuntina che si sfregava le mani sul grembiule quando maturai la certezza che l’isola verde mi aveva fatto il più bel regalo di compleanno. Lì avrei vissuto per sempre. Senza l’agenda fitta di impegni, senza l’auto nuova e i giorni del calendario. Presi l’orologio e lo gettai in mare. Comprai un cappello di paglia da cinque euro e corsi verso la spiaggia. Il mio mondo adesso era lì. Sentii come un abbraccio di vento scaldarmi l’anima e guardai verso il cielo e poi di nuovo in mare. Un vecchio tirava la rastrelliera mentre il sole calava a picco nell’acqua rendendo Procida all’orizzonte solo una macchia scura. Mi vide, alzò la mano per salutarmi, poi l’avvicinò dritta all’altezza degli occhi, come fanno i marinai per ripararsi dal sole. Mi avvicinai e scomparve nella luce del mio cinquantanovesimo compleanno.

 

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Dedico questo racconto a mia madre, proprio oggi compie gli anni! Ecco il suo profilo su Facebook e ringrazio Assuntina per aver deliziato con la sua maestria le mie cene ad Ischia. Se passate dall’isola verde non perdete tempo, correte da lei!

Ristorante Da Assuntina   – Via Francesco Buonocore, 29 – Ischia Porto – Tel.081-983693

Agosto e il rumore sordo dei ricordi

Finalmente ero felice mentre guidavo lungo la provinciale che portava ad una vecchia cascina lungo le rive dell’Adda. Il sole luccicava trascinando ombre bagnate lungo la strada e io respiravo l’aria calda dell’estate. Amavo anche la vecchia auto rumorosa che mi accompagnava in quel viaggio, l’assenza dell’aria condizionata, i finestrini che andavano tirati giù a mano, a fatica. Era tutto come un tempo. Anche l’odore dei campi a riposo, gli alberi in fila che apparivano ogni tanto tra la pianura tagliata da vie infinite di asfalto cocente, deserte e corrose. All’improvviso non vidi più niente davanti a me se non ricordi. La lucentezza dell’infanzia, le lunghe corse in bicicletta, le ginocchia sbucciate, il sapore fresco del latte nei bicchieri di vetro spessi e pesanti, il tavolo grande nell’aia. E tutta quella gente, il grembiule della nonna, il suo sorriso mentre seminava farina sull’immenso tagliere di legno alto, concavo del tempo passato. La panca dove stavano seduti i vecchi, poggiata al muro rosso, acceso, caldo come la terra d’intorno. Quella panca sotto la quale mi rimpiattavo quando giocavo a nascondino. I tracciati di gesso sul marciapiedi intorno alla casa segnavano quadrati dove saltare a zoppino senza perdere l’equilibrio. Gli animali che mi guardavano con occhi amichevoli e che salutavo con la mano alla fine dell’estate ,quando tornavo in città, allontanandomi con questa stessa auto carica di valigie di pelle spessa, coperta di polvere ed emozioni.

Poi, all’orizzonte si affacciò la Cascina. Grande, dalla forma regolare, con due bassi archi laterali. Lì un tempo stavano gli attrezzi dei campi, le vanghe, i rastrelli, i picconi. Quando arrivai il cuore era in gola, schizzato in alto fino a bloccarmi il respiro. Erano passati trent’anni e la Cascina era tinta di nuovo. Qualche secchio con la vernice era ancora lì e poco vicino se ne stava un pennello inzuppato nell’acqua perché non si indurissero le setole. La porta chiusa, tuffata di turchese sapeva di mare. Non seppi resistere e mi lasciai cadere all’indietro, nell’erba soffice. Mi solleticò la pelle e i pensieri. Piansi. Per quelle atmosfere delle quali non mi potevo più riappropriare, per quei volti che mi avevano lasciato lì, da solo, a ricordare. Rimaneva solo quella Cascina profumata di nuovo e dentro niente. Solo rumore di silenzio, qualche ruga in più sul cuore e occhi troppo stanchi per fissare a lungo l’orizzonte. Gambe pesanti per poter correre ancora lungo i campi. E una mente sempre più lucida che faceva apparire ferocemente limpidi i ricordi di un passato e di una vita che adesso stava solo a guardare.

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Grazie a Marco Vigiani per l’idea del racconto, scaturita dal suo stato su Facebook. “Come corre il tempo…è già agosto” – ha scritto oggi. Da questa frase è nato questo breve scritto, spero vi sia piaciuto. E’ un pò triste, lo so! ;)

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Per la foto ringrazio Flickr e Sunset Road: vuoi vedere il suo album? Clicca qui!