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La porti un bacione a Firenze

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“La porti un bacione a Firenze, vivo solo per rivederla un dì…”, cantavo così camminando tra strade di pietra fresca e il naso rivolto al cielo verso la sommità del Palazzo della Signoria. Avevo otto anni. La mia città era il centro del mondo, il mondo era la mia città. Correvo tra da Por Santa Maria infilandomi nei vicoli a me tanto cari. Mia sorella mi dava dietro ma quasi mai riusciva a raggiungermi. Mi nascosi in un piccolo antro in Via delle Terme, cercando di farmi piccola piccola, di rimanere in silenzio nel buio e lasciare il respiro stretto nello stomaco. Appena sarebbe arrivata sarei uscita allo scoperto, terrorizzandola. Lei avrebbe imprecato, sobbalzando. Poi avremmo riso a crepapelle, continuando a correre. Come ogni volta, più di ogni volta. L’argento dell’Arno mi luccicava sulla pelle quando mi sporgevo dai ponti, mischiato alle pagliuzze dorate delle botteghe fitte di polvere. Mi infilai dritta dentro il negozio di Gualtiero per seminare Tina. Lui stava passando la colla di pesce su una cornice e imprecava verso Dio. Appena mi vide si tappò la bocca e chiese scusa anche alla Madonna. Mi passò la mano sporca sulla testa, smuovendomi affettuosamente i capelli. “Quando mi prenderai a lavorare da te?” – gli chiesi.
Lui sorrise. “Pensa a imparare a ricamare – mi disse. Il lavoro è una cosa da uomini. E poi ti sciuperesti quelle belle manine. Vai a giocare và”.
Mi dette un colpo sulle spalle e si rimise al lavoro. Gualtiero era un vecchio amico di mio nonno e a me piaceva molto. Potevo stare ad ore in silenzio a guardarlo armeggiare tra i suoi arnesi. Oramai avevo imparato a memoria tutti i passaggi per dorare una cornice, anche se quello che divertiva di più era passare il bolo rosso, dopo aver lasciato che il gesso si seccasse penetrando nel legno. Odorava d’argilla.
Tina non mi vide e io corsi per tornare a casa. La mamma aveva promesso di portarmi alle Cascine a passeggiare nel parco, all’ombra degli alberi di cui mi insegnava a contare gli anni. Avevo capito che gli alberi vivevano molto più di me, di mia mamma e di Tina messe insieme. Potevano avere anche quattrocento o cinquecento anni. Io li invidiavo.

Quel giorno ero felice. Dopo la passeggiata saremmo andate in Via Sant’Antonino a mangiare i coccoli caldi. La padella era grande e piena d’olio bollente. Già mi vedevo quei bocconi di pasta fritta, adagiati nel cartoccio, già li sentivo scivolare gustosi nella pancia. Ricordo ancora lo sguardo terrificato di mia madre quando passai le dita unte sui vestiti per asciugare quel filo d’olio caldo che mi si appiccicava alle mani.

I suoi occhi mi dicevano tutto.

Così cercavo con noncuranza di allontanare la mano dalla gonna e spostarle dietro la schiena. Camminammo in silenzio fino ad arrivare a casa. Tina ci seguiva, dando uno sguardo ai negozi. Ci fermammo dal nonno, in Via Calzaiuoli. Il suo negozio di bambole era il più bello di tutto il centro. Una era alta quasi quanto me, con un vestito bianco come le nuvole pompose che toccavano la Cupola del Duomo. Mamma salutava tutti, sorridendo e abbassando il capo. Io provavo a imitarla ma dopo un po’ non resistevo, mi slegavo dalla sua mano e cominciavo a correre. E Tina dietro di me.

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Non c’era molto in quegli anni. Non avevamo la televisione, il telefono, il cellulare. L’auto mio padre l’aveva comprata da poco e fu la grande novità in casa mia. La domenica partivamo per lunghe gite. Mamma in auto cantava, mio padre pure. La campagna correva colorata e andavamo dove non c’era niente se non un buon panino al prosciutto e distese d’infinito. Le case erano in pietra e vi si accedeva da strade bianche e polverose. La gente aveva le mani ruvide e rughe spesse sul viso. Mangiavamo su tavoli di legno, seduti su una panca, in case che sapevano di legna bruciata e di fuliggine, anche d’estate.
Quando tornavamo a casa e scendevamo dal Viale dei Colli, io rimanevo incantata a guardare Firenze. Avrei voluto abbracciarla. Era così bella che ne ero innamorata. Ogni volta che ci ripenso, chiudo gli occhi e mi ricordo di lei, penso che il posto dove nasci e cresci è un po’ come il grande amore. Passi la vita a ricordarti com’era, passi i giorni a sperare che possa tornare tutto come un tempo. Cammino per il centro e provo a chiudere gli occhi. Gli zoccoli dei cavalli che battono nervosi sulle pietre di Via dei Cerchi, mi riportano all’infanzia. Sento le voci della mia gente, rivedo Gualtiero e la sua polvere d’oro, i vicoli odorosi di felicità inattesa. Continuo a camminare. In una città che non sento più mia. A volte la cerco nei sogni ma, quando mi sveglio, la sento sfuggire scivolosa dalle mani, distante e irrequieta. E rimangono solo quattro monumenti in croce a parlarmi di lei.

Per le foto ringrazio in ordine di apparizione:

FaP (guarda il suo album su Flickr a questo link )

Vino Rosso (guarda il suo album su Flickr, clicca qui! )

Per l’idea del racconto devo ringraziare il Sindaco di Firenze Matteo Renzi e la sua iniziativa “Un bacione a Firenze”, che si terrà il prossimo sabato 12 settembre. Tutti noi fiorentini in quell’occasione potremo dare il nostro contributo per pulire strade, piazze e parchi della città e far tornare la nostra Firenze nuovamente bella e affascinante., una Firenze che come dice Matteo “profumi di futuro”!

Brandelli di cuore

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Muove il vento le foglie del mio giardino e la loro ombra sul pavimento di casa le fa assomigliare ad acqua increspata. Sembrano foglie di limoni baciate di sole e il cielo mi appare come un’immensa distesa di mare. Sono in città e agosto sta finendo. Le mie ferie sono concluse, il frigo è vuoto e l’amore è ancora troppo lontano, almeno quanto la prossima estate. Guardo fotografie a colori che diventano dettagli da poter ingrandire sullo schermo del portatile, per ricordare meglio cosa ne è stato di ieri. Sul tavolo di casa finte margherite galleggiano in un vaso pieno zeppo di sabbia e mi ricordano che dovrei passare davanti ad uno specchio e spogliarmi delle cazzate che mi grondano addosso come pioggia insolente.

Ho solo ventisei anni. E i miei genitori quando sono nata hanno avuto la geniale idea di chiamarmi Gioia. Peccato che io, a differenza ciò che speravano per me, non sono affatto felice. Non so nemmeno cosa sia la gioia. Conosco piuttosto la malinconia devastante e impetuosa, vivo una felicità fatta di attimi, che non conosce spazi duraturi ma solo sfavillanti momenti di breve durata. Che non superano il tempo di un film, di una cena, dei fuochi arficiali. Che non vanno oltre il tempo di un esame, di una vacanza, di un sogno. E poi puf! Diventano niente. Crollano come fondamenta deboli, si sgretolano come la pelle bruciata dal sole.

“Gioia tesoro – legati quei capelli che ti si riversano sugli occhi. Hai un’aria così trasandata”. Sento la voce di mia madre, appena affacciata sul terrazzo. Annaffia le piante, getta via le foglie secche. Passo un dito al centro della montatura degli occhiali, per avvicinarli di più al naso. Per vederci chiaro mentre gli occhi affogano di lacrime. La voce di mia madre mi irrita in quel giorno così perfetto. Sarebbe un giorno bellissimo se solo fossi felice. C’è il fresco, il sole, c’è un aria bella da respirare. Ho ventisei anni. Ventisei. Che faccio qui, immobile di paura, avara di sogni? Aspetto un amore troppo lontano perché possa tornare. E mi accontento di niente, lasciando che il vento asciughi le guance bagnate e che il tempo rimetta insieme brandelli di cuore spenti di battiti.

“Gioia, cosa vuoi per cena stasera?”. Gioia? Gioia?!”.

Ho fame di felicità. Ma questo, mamma, non posso dirtelo.

Questo racconto mi è stato ispirato da due parole scritte da un amico di Facebook: Luca La Rocca. Vuoi vedere il suo profilo? Clicca qui!

Per la foto ringrazio Bimba81, andate a vedere il suo album su Flickr: cliccate qui!!!