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Il sapore della felicità

Le barche erano intrise di salmastro, strisce d’azzurro corrose dal sole . Il legno si bagnava di mare nei punti dove il bianco smaltato aveva ceduto. Io me ne stavo disteso in quella conchiglia allungata che dondolava tra le onde, ancorata al piccolo porticciolo naturale di fronte al castello. Correvo lì al mattino presto, quando ancora i taxi di mare non partivano. Così potevo starmene accovacciato nell’umidità del giorno che arrivava, con le gambe che cercavano spazio tra i remi appoggiati nel pagliolo. Portavo le braccia incrociate dietro la testa, all’altezza della nuca, a mò di cuscino. Guardavo il cielo e, poco più in là, il Castello Aragonese. Così grande, massiccio che pure i flutti di mare potevano farsi male quando si infrangevano ai suoi piedi. Da lì potevo ascoltare il mondo. Con una musica che mai più ho avuto modo di sentire. I gozzi che sciaguattavano come lavandaie nei fiumi, le finestre che si aprivano cigolando di mattino presto, i primi passi, strusciando sull’asfalto del ponte erano dolci suoni per le mie orecchie di bambino. Ogni tanto chiudevo gli occhi per sentirli meglio. Mi concentravo e riuscivo ad avvertire anche il battito d’ali dei gabbiani che planavano dall’ala est del Castello, volavano in mare. Pescavano. A volte scappavo dal letto della nonna e correvo nella notte al porticciolo. Volevo vedere le stelle cadere nel mare. Quando tutto è buio, così buio che mi faceva timore. E il mare era nero. Ma in più punti le luci lo facevano tremolare, come quando la luce elettrica ci abbandonava improvvisa ed a casa accendevamo le candele. Le mura tremolavano anche loro. Io mi divertivo, mi eccitavo, l’adrenalina saliva potente. Le candele erano il gioco inaspettato che cambiava faccia alla noia della notte. Fatta per dormire anche quando non ne hai voglia. E la faccia della mamma diventava arancio e se passavo le mani vicino alla fiamma, l’ombra delle dita diveniva gigante. La notte al porticciolo le stelle facevano oscillare l’acqua.

Il Castello sembrava affondare nel buio. Sprofondare nel mare. Avevo così tanta paura delle mie fantasie che aspettavo con ansia l’arrivo del giorno. Il cielo tinto di rosa, striato di blu cobalto e poi il sole. Rimanevo disteso fin quando non avvertivo l’odore del pane uscire dal forno del Boccia. Tutti, dal porto al ponte, facevano lunghe file per il filone da un chilo. Io mi presentavo quando ancora la bottega non era aperta. Mi affacciavo al laboratorio e il Boccia passava la mano infarinata sui miei capelli. Mi porgeva un panino che scottava come il sole di Ferragosto ed io, solo ringraziando con un gesto della testa, correvo via. Forte, fortissimo. Come se nelle mani avessi nascosto il tesoro di Sant’Anna. Come se i fantasmi delle Clarisse del Castello mi inseguissero per i vicoli del borgo. Le gambe mi portavano fin quando il fiato teneva. Le salite di Cartaromana non mi intimorivano. Arrivavo in alto, là dove potevo riposarmi nel verde, guardando il mare divenuto piatto come una tavola. Calmo. Il mio cuore invece saltava come un canguro impazzito. Le mani rosse stringevano ancora il panino del Boccia. Mi sedevo, su una pietra che rinfrescava i pensieri, addentando il primo boccone del giorno. Sapeva di farina buona e di sale. L’aria era quella dell’isola. Corsi verso casa prima che la nonna si svegliasse. Prima che i taxi di mare portassero i turisti a vedere i sassi multiformi spuntare dal mare come magiche ninfe.

Il giornalaio in piazza aggiustava le locandine. Passai dal retro del piccolo giardino dove la nonna aveva piantato due alberi. Un arancio e un limone che, come diceva sempre lei, non potevano mancare in una casa dell’isola verde. Dormiva. I capelli raccolti, le rughe appoggiate morbide sul viso. Lasciai i vestiti salati sulla sedia, dove li avevo riposti la sera prima. Andai a letto vestito solo delle mutande bianche di cotone che mi lasciavano il segno perché erano strette. Quel giorno mi addormentai pensando che da grande avrei vissuto così. Respirando a pieni polmoni le cose semplici della vita. Provando ad udire passi, battiti d’ali, penne biro su fogli a quadretti, ascoltando il rumore della carta dell’ortolano quando c’infila a forza il chilo e mezzo di pesche. Innamorato del suono della mattina, di spiragli di sole appoggiati sul pavimento. Di odore di bucato e profumo d’acqua ghiaccia sul viso. Di pane caldo e di farina sui capelli che spesso attaccavo al cuscino.

E stanotte mi addormento, con l’azzurro delle barche del porticciolo negli occhi, in una città del centro Italia, così rumorosa da non avvertire neppure un suono diverso dall’altro. Penso che domani partirò, mi dico. Nella tasca della mia giacca ho sempre un biglietto del treno, pronto per essere obliterato anche se oggi non serve più.

Posso partire, ripeto. Un gozzo, là nel mare forse mi aspetta ancora.

Volare

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  Ti ho avvicinato in un mattina di fine anno, quando tutto sembra andarsene e lasciare spazio a nuovi giorni, a nuovi orizzonti. Come quelli che vedevo confondersi con il mare, in una giornata tersa, limpida di emozioni. Con il profilo di Capri che si faceva notare, in lontananza. Con l’isola di Vivara, nitida. In primo piano. Tu non avevi paura. Ti lasciavi avvicinare, fotografare. Poi sei volato, abbagliato dal sole potente, lasciando alle spalle il Castello Aragonese. Un battito d’ali rumoroso, e via. A ridosso del mare, alla ricerca di aria, di danze nel cielo armoniose. Tu che tocchi terra, ti godi il panorama e poi riparti. Tu che ti sei lasciato osservare prima di spiccare il volo. Eri bello là, sul mare. Tu che viaggi senza prenotare, ti infili negli anfratti a me sconosciuti, tu che non hai tempo, nè giorni, nè ore. Tu che plani sulle teste dei pescatori al mattino, ti appoggi sulle barche di legno stantio e poi mi guardi. Vorrei volare con te, nella mia isola. Nel tuo mare del sud.

 

Oggi sono andata sul profilo di una delle mie “amiche” di Facebook ed ho visto alcune foto. Mi hanno riportato alla mente la mia isola e questo gabbiano che ho osservato, sognando, qualche mese fa. Da qui, questo breve post. Alla prossima!

Simona

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L’isola verde

 

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Non ho mai amato il mondo tirato a lustro, né le luci che nascondono nefandezze. Ho sempre creduto che le cose belle stessero nei posti meno noti, negli angoli lontano dal caos, dove non c’è troppo rumore. Dove si respira piano e si procede a passo lento. Meditavo su queste cose mentre un paio di infradito consunti mi accompagnavano per i vicoli dell’isola verde. Il sole filtrava tra i muri delle case corrose dal salmastro e il vento morbido mi velava i pensieri. Era il giorno del mio compleanno ed avevo scelto quell’isola per scappare lontano. Non avevo soppesato troppo su cosa mi avrebbe offerto quel luogo. Volevo solo andarmene da casa mia per una settimana, lasciare le bollette da pagare sul mobile vicino alle chiavi dell’auto, dare un ultimo sguardo alla scrivania sulla quale riversavano pile di fogli sui quali lavorare e andarmene. Staccare l’interruttore della luce, chiudere internet, vestirmi di niente e partire. L’isola verde era il mio posto nel mondo. Me ne accorsi appena arrivata, scesa dall’aliscafo che aveva tagliato veloce le acque del Golfo di Napoli per portarmi lì. In quel pezzo di terra baciato dal sole, fertile come la campagna toscana, dove i fichi crescono grassi arrampicandosi sul Monte Epomeo, dove i pomodori rossi incendiavano di colore i miei occhi vogliosi di annusare quel mondo sconosciuto. Vecchie donne rugose vendevano frutta per strada, appoggiata in cassette di legno che sapevano della mia infanzia. Mi ricordavano Camaiore e il sapore succoso delle frutta, i pesci che correvano tra le acque del Teneri, i girini a cui davo la caccia con mio cugino Flavio. Chiusi gli occhi mentre i colori dell’Isola mi venivano incontro. Inspirai lentamente così che il profumo del mare mi tornasse dentro, come cinquant’anni fa. Le campane delle chiese suonavano tutte insieme, riecheggiando dal porto al Ponte fino al Castello Aragonese. Accompagnarono il mio cammino fino a quando non mi appoggiai sul muro rosa di una casa che scendeva alla spiaggia dei Pescatori. La nuca strusciava sull’intonaco sporco di mare mentre il caldo mi bagnava la mente. Mi lasciai scivolare a terra, con le mani che abbracciavano le ginocchia e rimasi lì, ad ascoltare quel mondo. Fatto di voci, di qualche motorino truccato a dovere per correre meglio verso Serrara Fontana, di gabbiani adagiati sull’acqua, di rumore di ricordi mischiato alla gioia di essere lì. E di non desiderare altro se non quello, nel giorno del mio compleanno. Ripresi a camminare fino a che non arrivai a incrociare una traversa di Via Roma, la strada che unisce il porto dell’isola al Ponte. Entrai in Via Francesco Buonocore e mi diressi verso la spiaggia. Lì un piccolo ristorante catturò il mio sguardo. Era così lontano dall’atmosfera luccicante dei locali del porto, dai camerieri che come saette ti si avventano contro sciorinandoti il menu a memoria, accanto a pile di pesce fresco appoggiate su ghiaccio tritato. Assuntina se ne stava appena fuori dal locale, con il grembiule legato in vita e un sorriso vero stampato sul viso. Mi ispirò subito simpatia e le chiesi se potevo accomodarmi. Scelsi di stare all’aperto, così da avvertire il profumo del mare. D’intorno solo case, vecchi i cui volti sporgevano tra verdi persiane sgretolate, cani che passeggiavano solitari. Silenzio di pace, armonia terrena. Mi sentii subito a mio agio, accomodata su una sedia di plastica, proprio sotto al tendone a strisce bianche e blu dove si leggeva a chiare lettere il nome del ristorante. Sorseggiai dell’ottimo vino bianco, fresco come l’acqua del mare al mattino e gustai i sapori dell’isola verde. Mi rallegrarono occhi, cuore e palato. Mi regalarono emozioni per come erano stati cucinati, sapientemente accostati, dosati con maestria di massaia. Gli spaghetti San Pietro erano un’esplosione di colori tanto che quasi provai dispiacere nel mangiarli. Il nero delle cozze spiccava tra le foglie del basilico e i pomodori ammezzati, lasciati appena appassire in padella. Le vongole aperte come fiori di mare mi ricordavano le telline strette e lunghe che mio padre pescava con la rastrelliera, al mattino presto, sulle spiagge del Lido di Camaiore. Rimasi lì ben oltre il tempo di pranzare. Assuntina mi parlò dei suoi piatti, della caponata come viene fatta in Campania, del suo amore per Firenze, del coniglio all’ischitana, di quel pezzo di mondo che sorge ai piedi del Monte Epomeo, aggredito nei secoli da Saraceni e Turchi, fecondo di acque preziose, di una natura rigogliosa e amica. Ero ancora seduta vicino ad Assuntina che si sfregava le mani sul grembiule quando maturai la certezza che l’isola verde mi aveva fatto il più bel regalo di compleanno. Lì avrei vissuto per sempre. Senza l’agenda fitta di impegni, senza l’auto nuova e i giorni del calendario. Presi l’orologio e lo gettai in mare. Comprai un cappello di paglia da cinque euro e corsi verso la spiaggia. Il mio mondo adesso era lì. Sentii come un abbraccio di vento scaldarmi l’anima e guardai verso il cielo e poi di nuovo in mare. Un vecchio tirava la rastrelliera mentre il sole calava a picco nell’acqua rendendo Procida all’orizzonte solo una macchia scura. Mi vide, alzò la mano per salutarmi, poi l’avvicinò dritta all’altezza degli occhi, come fanno i marinai per ripararsi dal sole. Mi avvicinai e scomparve nella luce del mio cinquantanovesimo compleanno.

 

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Dedico questo racconto a mia madre, proprio oggi compie gli anni! Ecco il suo profilo su Facebook e ringrazio Assuntina per aver deliziato con la sua maestria le mie cene ad Ischia. Se passate dall’isola verde non perdete tempo, correte da lei!

Ristorante Da Assuntina   – Via Francesco Buonocore, 29 – Ischia Porto – Tel.081-983693