sabato 27 aprile 2024   | intoscana.it
  Il Portale ufficiale della Toscana
  .  
.

 

Archivio tag per 'famiglia'

Voglia di Natale

natale

Ho voglia di Natale. Di quando il mondo si ferma e non ce n’è per nessuno. Di negozi chiusi, di poche auto, di serenità. Vera o presunta. Di luci che brillano ovunque e ti finiscono gli occhi, di diapositive da proiettare dopo il pranzo a ricordare ieri. Ho voglia di risate che sanno di famiglia e di quegli abbracci che sono più calorosi del solito. E di te che mi apri la porta mentre fuori è inverno e sei bella come sempre anche quando cucini. Prepari i crostini e la maionese mentre pian piano arrivano gli altri. A casa tua c’è calore anche se non c’è il caminetto, se non c’è un fuoco che colora d’arancione. E di rosso. Noi insieme – nonostante tutto, nonostante le litigate, la rabbia, il risentimento, le improvvise gelosie, le incomprensioni e le paure– ci siamo sempre divertiti. Come quando hai preso in affitto quella casa al mare sopra la rosticceria del Lido. Ero piccola ma lo ricordo come se fosse adesso. L’umidità penetrava aggressiva tra i fili di lana del maglione lavorato ai ferri da Zia Tina e gocciolava lungo le mattonelle della cucina. Il riscaldamento non funzionava. Ma le risate, sotto ai pannolani pesanti, di notte quando ancora non c’erano i piumoni, non ce le toglieva nessuno. E quelle lenzuola di cotone così fredde che ci stringevamo tutti quanti per trovare un po’ di tepore. Quella casa di fortuna, una grande fregatura. Eppure eravamo felici. Felici con niente. Era Natale. Le mareggiate regalavano pezzi di legno dalle forme più strane, adagiati sulla battigia, corrosi dal salmastro, domati dall’acqua. Io li raccoglievo, mentre mio padre mi teneva per mano. Tu eri lì, con Jacopo stretto al seno, piccolo piccolo. E poi Monica, Betty, la mamma, il nonno e i suoi lunghi cappotti, quelle mani grandi che alzava al cielo per salutare le persone, per catturare il vento. C’era nebbia e le luci parevano immense, a tratti dense e poi leggere. Impalpabili. I grandi dicevano che il Natale fa tristezza. A me invece sembrava bellissimo. Eravamo tutti insieme. C’eri tu.

Senza titolo

Un calcio sacrilego al destino perfetto

L’Arno è sporco e ghiacciato. Per questo alzo gli occhi verso Ponte Vecchio, per non vedere l’acqua  che cammina melmosa. E’ un po’ come me. Anch’io tiro passi lenti, pesanti  come se fossi coperto di fango e detriti. Trascino la mia valigia con dentro tutta la mia vita. Ci ho infilato qualche foto. Una in cui sono in prima elementare con il grembiule nero ed il colletto bianco, in  un’altra ho la bocca sporca di gelato. Poi c’è quella in braccio a mia nonna, appoggiato sui quei seni che paiono la Cupola di Santa Maria del Fiore, così perfettamente tondi e  pieni. Universali e caldi che mi ci addormentavo sempre. Nel trolley che mi porto dietro verso la stazione di Santa Maria Novella c’è un quaderno, con i  miei fumetti. Con i miei sogni di ragazzo che ho ingabbiato nei quadretti di quelle pagine. C’è la camicia  stirata da mia madre, che sa di appretto. C’è la foto di Mirò, che mi ha lasciato  urlando come un’istrice impazzita,  perché sono “un animale invertebrato pronto a strisciare come un serpente a sonagli per il successo”. E’ stato il suo nome a farmi innamorare di lei. Mirò, sapeva di colore. Proprio come un quadro. Chissà che cosa direbbe adesso. Se solo mi vedesse camminare a piedi, senza il mio autista, trascinando una valigia da venti euro cinese, con ai piedi un paio di All Star onsunte riesumate in soffitta. Ma ancora buone. Comprate negli anni novanta, blu elettrico. Ci cammino bene. E avverto un senso di leggerezza inaudito. Il resto del mondo l’ho buttato via stamani, dopo aver chiuso la valigia. L’orologio di casa mia segnava le 10,26. Ho sceso le scale tre, quattro, cinque volte diretto verso i contenitori della Caritas, quelli dove si mettono i vestiti per i poveri. Li ho riempiti. 10 scarpe di Gucci. 5 di Hogan. 3 di Ferragamo, quelle che ho fatto più fatica a gettare. E poi i completi, le cravatte, caterve di camicie. So di non aver fatto cosa buona ma ho buttato anche il mio Mac. L’Iphone invece adesso credo sia appoggiato sul letto del fiume d’argento, proprio sotto Ponte Santa Trinita. Prima ho voluto scattare una foto. Alla mia città. L’ultima. Prima di partire. Pluff.

Il treno è in ritardo. L’attendo sereno. Nessuno mi corre dietro oggi. Rido, pensando a cosa starà succedendo a Roma.  Lavoro lì ma faccio il pendolare così la sera me ne torno sempre a Firenze. Avevo cinque appuntamenti in un’agenda più fitta della programmazione di SkySport. Il primo alle 9 in punto. Colazione di lavoro. Mi aspettava il mio ufficio da 150 metri quadri, la mia segretaria, la borsa in picchiata, il traffico. Respiro a pieni polmoni, aspetto il regionale che mi porterà a Viareggio. E poi il pulmann, verso Camaiore. Lì c’è la casa di mio nonno, dietro le Muretta. Ho trentasei anni. Sono un uomo. Ma mi manca quel posto.
“Italo, Italo…ma sei proprio tu!”. Mi volto. E’ Matteo Francesconi. Con lui mi aggrappavo sulle Muretta a raccogliere le more. Giocavo a rimpiattino o con le biglie. Ricordo anche pallonate verso il cielo d’agosto, con il SuperTele blu e nero. E non poteva essere altrimenti. Lui era interista.
Gli rispondo con un cenno del capo e allargo le braccia. “Sono proprio io, in carne ed ossa”.
“Il ritorno del signor prodigo”.
“Eh sì, a volte ritornano”, dico io. E la voce la sento che mi viene a mancare, si fa sommessa come quando mio nonno mi rimproverava e correvo a nascondermi nell’angolo della stanza. Autocastigandomi ancor prima di sapere quale sarebbe stata la mia punizione.
“Allora?”- su su tira fuori la prole, dove l’hai nascosta? Mi chiede.
No  - mi dispiace  deluderti caro Matteo. Niente  figli, niente moglie e nemmeno un’amante. Sono libero come l’aria.
Oh, Italo Pezzini, non ci credo. Non è da te.
E invece lo è. Ribatto mentre la conversazione mi sta stufando.
Lui ridacchia. Mi racconta di sé anche se io non sono sinceramente interessato a come ha passato gli ultimi venti anni della sua vita.
“Mi sono sposato con la figlia del pizzaiolo. Ti ricordi Laura?”.
“No, non ho molta memoria. Mi spiace”.
“Ma sì che te la ricordi dai. Ci passava  triangoli di cecina e di pizza di nascosto da suo padre.  E non te la ricordi l’indigestione di Scarpaccia? Se ancora oggi vedo una torta di zucchine potrei morire all’istante. Comunque adesso abbiamo due figli. I figli sono la cosa più bella vita, dovresti provare ad averne almeno uno. E’ una gioia che non si può descrivere. Certo i problemi sono tanti, tirare avanti oggi è diventata dura. Però ce l’ho fatta a comprare casa, vicino al Prado. Trent’anni di mutuo. Fortuna che mi ha aiutato un po’ mio suocero. E non ti ho detto dove lavoro! Insegno alle scuole medie. Sai quelle dove abbiamo studiato anche noi. Pensa tu i casi della vita  eh Italo?”.
“Eh, sì i casi della vita. Scusa ma devo proprio andare, sono di fretta. Devo ritirare delle carte e partire”.
“E dove vai?”.
“Ancora non lo so”.
Faccio un breve saluto a Matteo Francesconi con la mano e proseguo per la mia strada. Muovo le  chiavi  nella tasca dei pantaloni e penso che gli amici d’infanzia siano un ricordo che deve rimanere tale. Ritrovarli dopo tanti anni ti genera solo delusione. Meglio lasciarli inchiodati a una foto di terza media, con l’apparecchio ai denti e la camicia che gli esce  dai pantaloni. La sua effimera felicità mi disgusta.


La porta di casa cigola. Camaiore invece è silenziosa. Nella corte si respira la solita aria austera. I ritratti del bisnonno Jacopo e della  Piera Magnaghi sono appesi alle pareti, più scuri e tetri del solito. Il mio stemma di famiglia invece è  sempre in salottino, in bella vista. Vicino alla scrivania in radica ed ai libri di latino. Il mio destino era già scritto in quei libri. Non avevo scelta, ancor prima di nascere. Dovevo essere un uomo di successo,  proprio come poi sono diventato, degno discendente di una famiglia di potenti. Ricco. Nobile. Sfacciatamente stronzo, forse. Proprio come mi accusa Mirò. Lei che viene dalla campagna, cresciuta tra le spighe di grano e gli olivi. Così figlia della terra che pulisce il piatto con le dita e poi se le porta alla bocca. La prima volta che le vidi fare quel gesto rabbrividii. Lei se ne accorse. E continuò. Amava sfidarmi.
Corro veloce fino in soffitta. Al terzo piano. Dovevo prendere ancora due cose, prima di scappare. Perchè è questo che sto facendo. Sto scappando. C’è polvere di anni. Tutto è grigio fumo. E la polvere la vedo chiaramente, in controluce.
In un angolo c’è un fustino cilindrico di Dixan, degli anni Ottanta. Dentro so già cosa c’è, al posto del detersivo. Ma lo apro comunque, come se dovessi scartare un regalo di Natale. Tolgo il coperchio rotondo, coperto da tre dita di laniccio e affondo le mani nel mio tesoro. Decine e decine di soldatini giacciono nel fustino chissà da quanti anni. Eppure sembrano nuovi. Ne prendo in mano tre o quattro e tutto torna a parlare. Di pomeriggi di bambini, passati a costruire barricate, a giocare alla guerra. Pomeriggi di spari e di bombe, di eroi che battevano il nemico, di elicotteri che facevo roteare in aria e poi discendere a terra, per salvare  gente immaginaria che chiedeva aiuto, dal basso delle campagne.
Il silenzio di Camaiore ricordava la guerra. All’epoca ero un grasso bambino che tentava inutilmente di arrampicarsi sulle mura fatte di grosse pietre, chiare come il marmo delle cave di Michelangelo, a Carrara. Su quelle mura, mi raccontava mia madre, si rannicchiavano i partigiani, con i loro fucili tra le mani. Morivano per la libertà. Non ho mai saputo cosa si poteva vedere al di là di quelle pietre. Tutti riuscivano ad arrivare alla cima e poi sedersi, gustarsi il panorama. C’era riuscita pure mia cugina, due anni più piccola di me ma decisamente più agile. La invidiavo mentre mi invitava a raggiungerla. La guardavo dal basso, mentre il vento le muoveva i capelli lisci e lo sguardo vivace pareva brillare come fa l’asfalto a luglio, quando sembra bagnato. I miei occhi hanno immaginato tante volte cosa potesse esserci là dietro. Distese infinite di papaveri rossi, tanti quanti erano i partigiani morti in guerra, uccisi dai tedeschi cattivi. Oppure un grande lago, posato  dolcemente ai piedi delle montagne. Nell’acqua rifletteva il verde degli alberi, delle foglie mosse dal libeccio. Poco lontano dal lago c’era una grande casa di campagna, una scala di legno di fortuna appoggiata ad un fico. Delle grandi vasche di pietra dove donne inginocchiate lavavano immense lenzuola bianche. Le mani forti si immergevano nell’acqua ghiaccia, si tuffavano nel bucato come audaci delfini. E riemergevano rosse come il fuoco che ardeva nei camini, d’inverno. Se mi concentravo riuscivo pure a sentire gli odori di quella casa, quella che immaginavo potesse esserci dietro le mura di Camaiore. Ancora oggi non so cosa ci sia oltre quei grossi massi. I miei occhi non sono mai andati oltre la mia immaginazione.

Smuovo i  soldatini nella mano, mentre mi guardo intorno. Cerco dell’altro. Ci sono tante scatole, riposte in maniera ordinata avvolte da lunghe ragnatele fitte come nebbia.  Le faccio fuori con la mano, con una zampata degna di leone. Sono diventato vorace di ricordi.  Mi siedo a terra ed apro i cartoni, uno ad uno. Tante cose non mi dicono niente. Una vecchia radio, un frullatore, serviti mai usati, posate d’argento. Non ci sono libri. A casa di mio nonno i libri non sono fatti per essere tenuti in soffitta. “Il sapere deve stare sempre a portata di mano” –  mi diceva indicandomi la libreria a parete del salotto.

“Vedi questa fila? Ci sono i libri che dovrai leggere in questa estate”.
Mi obbligò a farlo davvero ma non fu una punizione come credevo. Tutt’altro. Il primo libro l’ho letto sulle rive del Teneri, il torrente di Camaiore. Era un pomeriggio di giugno del 1981, avevo sei anni. Non ho mai visto tanto verde vibrante di sole come in quei giorni. Mio nonno teneva su un cappello di paglia e portava un paio di pantaloni blu che tirava su fino al ginocchio. D’intorno qualche uomo pescava.
“Vieni qua”- mi disse – siediti qui, vicino a me. Mi tolse le scarpe e lui fece lo stesso. Dai, adesso è il momento di infilare quelle zampe nell’acqua. Forza ” – mi esortò.
L’acqua era fredda.  Ma dopo qualche minuto il mio corpo si era già temperato. Mi spiegò che proprio lì, sul Teneri, si era tanto divertito da giovane, quando scappava  da suo padre.
“Il latino non mi andava giù sai, non l’ho mai digerito” – mi confessò. Così venivo qua, di corsa. Mi sentivo libero.
Ma tu, adesso devi leggermi una favola – mi disse. Ecco qua. Mi mise tra le mani un libro di Jean de La Fontaine. Era più grande di me. La copertina verde smeraldo, le scritte grandi,  le illustrazioni colorate che prendevano tutta una pagina.
Ma non possiamo pescare?  - gli chiesi. Siamo in mezzo ad un torrente, qui si pesca, non si legge.
E chi l’ha detto questo? Tu adesso inizi a leggere, poi peschiamo.
Tu mi prendi in giro, nonno. Non hai portato la canna da pesca. Lui rise. Leggi – mi intimò. Dopo ti ho detto che pescheremo. Che fai non credi a tuo nonno?
Non risposi ed iniziai il racconto.
Allora? Italo,  sto aspettando.
Nonno, sto leggendo.
A voce alta, Italo. A voce alta.
Un po’ mi vergognavo di dover leggere a voce alta. A pochi metri da noi c’era chi pescava,  sulla riva opposta c’era un uomo che ci guardava strano. Ma non mi pareva il caso di contraddire ancora mio nonno. E iniziai a leggere.
«Un corvo aveva rubato un pezzo di formaggio ed era andato a posarsi su di un albero. Lo vide la volpe e le venne voglia di quel formaggio.
Si fermò ai suoi piedi e cominciò a far grandi lodi del suo corpo perfetto e della sua bellezza, dicendo che nessuno era più adatto di lui ad essere il re degli uccelli, e che lo sarebbe diventato senz’altro , se avesse avuto la voce”.
La voce, Italo. Chiudi quelle “c”.
Ripresi a leggere. “Se avesse avuto la voce”.
Il nonno fece segno con il capo che stavolta la mia dizione era quella giusta e continuai.
“Il corvo, allora, volendo mostrare che neanche la  voce gli mancava, si mise a gracchiare con tutte le sue forze, e lasciò cadere il formaggio. La volpe si precipitò ad afferrarla, soggiungendo: “Se poi, caro il mio corvo, tu avessi anche il cervello, non ti mancherebbe proprio altro, per diventare re”.
Bene, bravo Italo. Passò veloce la sua mano sui miei capelli, arruffandoli.
Cosa hai capito di questa favola?
Lo guardai inebetito. Ero talmente impegnato a leggere bene e pronunciare con la giusta dizione ogni parola che avevo perso il senso di quello che avevo appena letto.
Lo guardai, impaurito. C’era solo l’acqua a fare rumore.
Puoi rileggerla se vuoi. Lo feci, ma in silenzio. Con gli occhi.
Poi guardai mio nonno che invece osservava il cielo. Aveva le mani appoggiate sull’erba, appena dietro la schiena.
“Non bisogna fidarsi di chi ti fa i complimenti” – dissi, poco certo di aver dato la risposta giusta.
“Fidarsi è bene, non fidarsi è meglio – dice un vecchio proverbio – ma c’è dell’altro. Ci vuole cervello, piccolo. Sarà il tuo miglior compagno durante tutta la vita. E questi, disse poi – indicando il libro che tenevo saldo sulle ginocchia per non farlo cadere in acqua – sono importanti sai per sviluppare quella scatolina che tieni dentro questa capoccia”.
Io diventai rosso. Lui rise.
Adesso peschiamo. Dimenticai il mio imbarazzo e corsi in piedi. Il nonno camminava scalzo sui massi, Avevamo le gambe affogate in venti, venticinque centimetri di acqua. Erano giorni di secca.
Attento a non scivolare che poi tua mamma e tua nonna ci fanno lessi a tutti e due.
Sghignazzai forte, portandomi una mano a nascondere un sorriso birbante. Il nonno avvicinò le mani, a conchino, come quando devi bere e raccogli così l’acqua sotto al getto delle  fontane. Le calò vicino ai massi, immergendole fino a metà dell’avambraccio. Le tirò poi fuori, improvvisamente. Niente, la pesca non era andata a buon fine. Poi le portò di nuovo nell’acqua, mossa di correnti nervose. Quando le portò di nuovo fuori aveva uno sguardo soddisfatto. Guarda qua. In mano aveva dei bruscoli neri che si muovevano con una minuscola coda. Sembravano delle virgole in grassetto.

Cosa sono? chiesi un po’ deluso.
Sono girini.
Girini? Non sapevo minimamente cosa fossero. Erano esseri non contemplati tra le conoscenze acquisite nei miei primi sei anni di vita.
Sono rane, mi spiegò mio nonno – vedi dopo un po’ di tempo spunteranno le gambe, poi si formerà la testa ed il resto del corpo.
Lo guardavo affascinato. Sapeva rendere interessante qualsiasi cosa. I libri più belli che ho letto in vita mia, sono stati quelli delle mie estati. Decine e decine di romanzi che divorano con le gambe immerse nell’acqua del fiume, con le fronde degli alberi che facevano ombra alle pagine e muovevano le parole. Mi immedesimavo nei personaggi, gioivo e soffrivo con loro e loro con me. Mi vestivo delle loro vite e poi correvo in bici fino al mare. Mi tuffavo e nuotavo oltrepassando le secche. Poi mi mettevo a pancia in su. Galleggiavo con le braccia aperte. Sentivo l’acqua che per metà mi prendeva il corpo e lasciava libera l’altra  metà. Guardavo il cielo e immaginavo. Facevo il morto a galla. Anche questo me l’aveva insegnato mio nonno.
Si chiamava come me, Italo. Mentre aprivo e richiudevo le scatole in soffitta pensavo a cosa avevamo in realtà in comune io e lui, oltre al nome. Una famiglia che oggi non ho più, forse. Li ho persi uno ad uno senza neanche accorgermene. Falcidiati dal tempo. A volte quando mi chiamavano ed ero preso dal lavoro, dalle telefonate, dalle riunioni o semplicemente dal niente di cui mi ero circondato mi disturbavano. Tutti i parenti che mi chiamavano li giudicavo solo una gran scocciatura. Mia zia, mia nonna, perfino mia madre.  Soprattutto mia madre. Chiunque mi scocciava. Pure le donne che mi ritrovavo nel letto al posto di Mirò. Se da bambino non mi stancavo mai di quel facevo da adulto sono diventato l’opposto. Tutto mi stanca. Guardo i soldatini a terra, vicino al fustino di Dixan. Avevo quelli e mi bastavano. Poi è arrivato il successo, il lavoro, i riconoscimenti, il denaro. E non mi bastano mai. Ho incominciato a correre fino a rimanere senza fiato. Sono sempre arrivato a vincere. Sempre il primo della classe, il primo sul lavoro, il primo con le donne. Ma quando arrivo ho bisogno di partire di nuovo. Appena raggiungo l’apice non mi sento appagato. Sono nervoso, stizzito, incazzato come nessuno. Tiro un calcio alle scatole, qua in soffitta. Un calcio sacrilego ad un’infanzia troppo perfetta e ad un presente che non mi dice niente. Mi lascio cadere all’indietro. Le gambe incrociate come gli indiani. Le braccia aperte come quando facevo il morto a galla. Sopra di me, però, niente cielo. Solo vecchie travi pesanti. Respiro forte. Mi manca l’aria. Chiudo gli occhi. E poi li stringo fino a farmi male. Spero che quando li riaprirò sarà tutto diverso. “Che cazzo stai facendo Italo?”. “Cazzo fai in sto porco mondo zozzo come acqua marcia che trovi sui marciapiedi quando piove? – Cazzo, cazzo, cazzo. Lo ripeto più volte tanto che il concetto mi entri chiaro in testa. Batto i pugni sul pavimento gelido mentre il buio non mi risponde. Piango. Stizzito come quando facevo le bizze da bambino. Piango e non so fermarmi. Credo di avere un mostro nello stomaco che mi urla dentro ed ha voglia di uscire. Mi sta sbranando. Io sto vaneggiando.
Ho la febbre. Ho fame. Ho paura.

L’altalena


All’ultima fila di ombrelloni, vicino al tavolino da ping pong, ci sono le altalene. Mio nonno mi ci porta sempre. Mi solleva, mi aggiusta sulla seduta di legno corroso di mare. Io afferro le catene, strette strette, come mi dice sempre lui. “Non lasciarle mai, per nessun motivo”- si raccomanda. Ha il cappello in testa, le merit infilate nel costume.

“Sei pronta?” – mi chiede.

“Sì, nonno. Fammi volare!”.

Lui si porta dietro le mie spalle strette di bambina, cotte di sole. Prende le catene tra le mani. Cigolano. Sento che mi porta indietro, per darmi la rincorsa. Poi mi lascia andare. E io volo. Dapprima piano, poi sempre più forte. Fletto le ginocchia, come mi ha insegnato il nonno, così riesco a tagliare l’aria ed andare sempre più alto. Arrivare lontano mi piace. Quando l’altalena fa sempre più rumore e vedo gli altri bambini in fila ad aspettare il loro turno. Sono più piccoli di me. A loro è vietato volare così alto. Io invece riesco a rasentare il cartellone pubblicitario della Coca Cola, in cima all’altalena.  Fletto le ginocchia sempre meno, per rallentare la velocità e pian piano, fermarmi. La sabbia brucia, come l’acqua di mare negli occhi. E allora, mano nella mano con il nonno, salto da un ombra all’altra, salto file di ombrelloni, fino ad arrivare al mio. In prima fila.

Zia Tina fa l’uncinetto. Mia nonna si unge, che il sole così attacca meglio. Io sto sulla sdraio, seduta. Aspetto la mia merenda. La focaccia del mare è la più buona del mondo, sa di sale ed è morbida di olio. La nonna la compra all’alimentari del Lido, sulla strada che taglia l’Italica, ne strappa un pezzo da bambini e me la porge. Io la finisco veloce, perché la rivoglio sempre due volte. Le bibite si bevono con la cannuccia, nelle bottiglie di vetro che ci soffi dentro e gonfiano come l’acqua della pasta quando bolle.  Quando faccio merenda i miei mi dicono di stare all’ombra. E la sabbia, all’ombra, diventa buona. Sarà per questo che la mamma mi distende l’asciugamano a terra e io, accovacciata di lato, allungo le mani per toccarla, per sentirla fresca, sulla pelle.

La mia estate profuma. Quando dalla città, prepariamo l’auto per andare al mare io riesco già a sentirne l’odore. Sa di legna, appoggiata sulla battigia, di coltellacci a riva, di telline da tirare su con la rastrelliera. E sa di more, quelle da raccogliere sulle Muretta, nei giorni che non si va sulla spiaggia. Io e Nicola ci arrampichiamo per prenderle, riempiamo i ciottoli di latta, le laviamo con l’acqua ghiaccia di Camaiore. E le mangiamo, seduti in una poltrona in due, davanti alla tv. Dalla zia Jone, al mare, si beve l’acqua dal ramaiolo. E’ ammaccato dal tempo, appoggiato al muro, sul lavabo di marmo. Io voglio sempre bere per prima che non mi giovo degli altri. E allora corro veloce, faccio scendere presto l’acqua, giù, a fontana. Fin quando, fredda da far rabbrividire lo stomaco, merita di essere bevuta. Mia mamma, quando mi vede fare così urla. Dice che mi un giorno o l’altro mi verrà una congestione. A me non interessa. Che può farmi un po’ di acqua tirata giù veloce?

Niente, in fondo io posso fare tutto. Posso correre, dalla chiesa, fino all’arco del Comune. Segnare quadrati a terra, sul cemento, con i sassi  e giocare zoppino. Arrivare fino alla casa delle due sorelle pazze, che la mamma mi ha detto di non avvicinarmi neppure se mi salutano. Fare i primi tre scalini esterni che conducono al portone e poi, con Nicola, scappare a gambe levate. Con il cuore in gola, che batte. Batte e ancora batte. A Camaiore sembra che ci sia racchiuso il mondo.

C’è il profumo della vita, il sole che alle due del pomeriggio ti toglie le forze e ti fa arrancare. C’è Macò, il down rinchiuso che urla, dalla finestra di camera sua e lo senti in tutto il paese. C’è ombra e luce.

L’ombra di Via Vittorio Emanuele, là dove c’è la chiesa, espongono i morti e ho paura solo a passarci. Là dove c’è la Misericordia, che anche quando ha il bandone ammezzato, ci si vedono le bare. Allora chiudo gli occhi e chiedo alla mamma. “Lo abbiamo sorpassato? Posso aprirli?”.  Le Muretta invece sono il sole, il cielo che lo guardi e ti viene di respirarlo tutto quanto. Sono le Apuane, che in certi giorni ti sembra di poterle toccare. Sono la mia famiglia, in posa, fuori casa che si stringe per fare la foto di gruppo con la polaroid.

Sono i miei ricordi. Oggi  così vicini da desiderare di poterli toccare di nuovo.

La porti un bacione a Firenze

1731050281_f4102b9fab

“La porti un bacione a Firenze, vivo solo per rivederla un dì…”, cantavo così camminando tra strade di pietra fresca e il naso rivolto al cielo verso la sommità del Palazzo della Signoria. Avevo otto anni. La mia città era il centro del mondo, il mondo era la mia città. Correvo tra da Por Santa Maria infilandomi nei vicoli a me tanto cari. Mia sorella mi dava dietro ma quasi mai riusciva a raggiungermi. Mi nascosi in un piccolo antro in Via delle Terme, cercando di farmi piccola piccola, di rimanere in silenzio nel buio e lasciare il respiro stretto nello stomaco. Appena sarebbe arrivata sarei uscita allo scoperto, terrorizzandola. Lei avrebbe imprecato, sobbalzando. Poi avremmo riso a crepapelle, continuando a correre. Come ogni volta, più di ogni volta. L’argento dell’Arno mi luccicava sulla pelle quando mi sporgevo dai ponti, mischiato alle pagliuzze dorate delle botteghe fitte di polvere. Mi infilai dritta dentro il negozio di Gualtiero per seminare Tina. Lui stava passando la colla di pesce su una cornice e imprecava verso Dio. Appena mi vide si tappò la bocca e chiese scusa anche alla Madonna. Mi passò la mano sporca sulla testa, smuovendomi affettuosamente i capelli. “Quando mi prenderai a lavorare da te?” – gli chiesi.
Lui sorrise. “Pensa a imparare a ricamare – mi disse. Il lavoro è una cosa da uomini. E poi ti sciuperesti quelle belle manine. Vai a giocare và”.
Mi dette un colpo sulle spalle e si rimise al lavoro. Gualtiero era un vecchio amico di mio nonno e a me piaceva molto. Potevo stare ad ore in silenzio a guardarlo armeggiare tra i suoi arnesi. Oramai avevo imparato a memoria tutti i passaggi per dorare una cornice, anche se quello che divertiva di più era passare il bolo rosso, dopo aver lasciato che il gesso si seccasse penetrando nel legno. Odorava d’argilla.
Tina non mi vide e io corsi per tornare a casa. La mamma aveva promesso di portarmi alle Cascine a passeggiare nel parco, all’ombra degli alberi di cui mi insegnava a contare gli anni. Avevo capito che gli alberi vivevano molto più di me, di mia mamma e di Tina messe insieme. Potevano avere anche quattrocento o cinquecento anni. Io li invidiavo.

Quel giorno ero felice. Dopo la passeggiata saremmo andate in Via Sant’Antonino a mangiare i coccoli caldi. La padella era grande e piena d’olio bollente. Già mi vedevo quei bocconi di pasta fritta, adagiati nel cartoccio, già li sentivo scivolare gustosi nella pancia. Ricordo ancora lo sguardo terrificato di mia madre quando passai le dita unte sui vestiti per asciugare quel filo d’olio caldo che mi si appiccicava alle mani.

I suoi occhi mi dicevano tutto.

Così cercavo con noncuranza di allontanare la mano dalla gonna e spostarle dietro la schiena. Camminammo in silenzio fino ad arrivare a casa. Tina ci seguiva, dando uno sguardo ai negozi. Ci fermammo dal nonno, in Via Calzaiuoli. Il suo negozio di bambole era il più bello di tutto il centro. Una era alta quasi quanto me, con un vestito bianco come le nuvole pompose che toccavano la Cupola del Duomo. Mamma salutava tutti, sorridendo e abbassando il capo. Io provavo a imitarla ma dopo un po’ non resistevo, mi slegavo dalla sua mano e cominciavo a correre. E Tina dietro di me.

10920811_d16e9aaca3

Non c’era molto in quegli anni. Non avevamo la televisione, il telefono, il cellulare. L’auto mio padre l’aveva comprata da poco e fu la grande novità in casa mia. La domenica partivamo per lunghe gite. Mamma in auto cantava, mio padre pure. La campagna correva colorata e andavamo dove non c’era niente se non un buon panino al prosciutto e distese d’infinito. Le case erano in pietra e vi si accedeva da strade bianche e polverose. La gente aveva le mani ruvide e rughe spesse sul viso. Mangiavamo su tavoli di legno, seduti su una panca, in case che sapevano di legna bruciata e di fuliggine, anche d’estate.
Quando tornavamo a casa e scendevamo dal Viale dei Colli, io rimanevo incantata a guardare Firenze. Avrei voluto abbracciarla. Era così bella che ne ero innamorata. Ogni volta che ci ripenso, chiudo gli occhi e mi ricordo di lei, penso che il posto dove nasci e cresci è un po’ come il grande amore. Passi la vita a ricordarti com’era, passi i giorni a sperare che possa tornare tutto come un tempo. Cammino per il centro e provo a chiudere gli occhi. Gli zoccoli dei cavalli che battono nervosi sulle pietre di Via dei Cerchi, mi riportano all’infanzia. Sento le voci della mia gente, rivedo Gualtiero e la sua polvere d’oro, i vicoli odorosi di felicità inattesa. Continuo a camminare. In una città che non sento più mia. A volte la cerco nei sogni ma, quando mi sveglio, la sento sfuggire scivolosa dalle mani, distante e irrequieta. E rimangono solo quattro monumenti in croce a parlarmi di lei.

Per le foto ringrazio in ordine di apparizione:

FaP (guarda il suo album su Flickr a questo link )

Vino Rosso (guarda il suo album su Flickr, clicca qui! )

Per l’idea del racconto devo ringraziare il Sindaco di Firenze Matteo Renzi e la sua iniziativa “Un bacione a Firenze”, che si terrà il prossimo sabato 12 settembre. Tutti noi fiorentini in quell’occasione potremo dare il nostro contributo per pulire strade, piazze e parchi della città e far tornare la nostra Firenze nuovamente bella e affascinante., una Firenze che come dice Matteo “profumi di futuro”!