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Fiorentina, “Nessuna passione è inutile, nessun amore è sprecato”

Nessuna passione è inutile, nessun amore è sprecato scriveva  Paulo Coelho ne La Strega di Portobello. Andrebbe spiegato a chi dice speriamo di vincere domenica contro la Juve così “la smettono di rompere le balle”. Andrebbe spiegato a chi parla di progetto ma non regala sogni. A chi pensa che Fiorentina – Juventus sia solo una toppa per riparare a una stagione grigia come il cielo di Milano. A queste persone vorrei regalare un pò di colore viola scuro sul cuore. Vorrei fargli provare per un attimo il brivido di emozione che serpeggia dallo stomaco alla gola quando parte l’inno viola al Franchi. Siete mai stati in Curva? Avete mai sentito il freddo attanagliarvi le membra mentre si perde e si contano i minuti sperando di pareggiare i conti? Avete mai pianto per una maglia che sentite incollata al corpo come una seconda pelle?


Non sta certo a me dare risposte, è vero.
Però quei brividi, quel freddo, quella gioia, quell’emozione li ho provati e per me la Fiorentina anche così piccola, provinciale e grigia è una passione che non è certo inutile. E l’amore per la tua squadra non è mai sprecato. Sarà per questo che la rabbia mi ribolle come una pentola a vapore adagiata sul fornello sentendo freddezza, assenza di fervore, complicità. Una Fiorentina senza enfasi enfasi, agitazione, tormento, speranza, attesa. E’ rabbia.

Fiorentina – Juventus non è una partita come tutte le altre, mettetevelo in testa voi che calcate quel campo che è sacro, quell’erba verde appoggiata ai piedi di Fiesole, proprio sotto la Torre di Maratona.

Quel campo ha visto tante battaglie. Ha visto persone, vittorie e sconfitte. Ha sentito la pesantezza dei tacchetti, la potenza di un goal, la gioia di uno stadio impazzito quando si è vinto, con la Juve in casa, l’ultima volta. Era il 1998. In campo c’era il Re Leone. Sembra una vita fa. Sembra un’altra storia. Quando “correva” il pallone e si “rincorreva” una passione, quando segnare era amore. E niente era sprecato. Neppure quei sogni che vengono definiti “pallosi”. Pallosi sì, ma veri, sanguigni, forti, sinceri.

Non basta uno sciarpone viola al collo per dimostrare che la Fiorentina non è una passione sprecata. Non basta un buon markerting per far innamorare i tifosi. Firenze è passionale. E anche criticona, è vero. E’ lamentosa. Esigente. Ma è sincera. Innamorata.  Ed è Viola. Viola scuro.

Una Firenze che non ama i colori annacquati. Ricordatevelo domenica quando scenderete in campo con una maglia sul petto che, per chi sta sugli spalti, vale più di un contratto milionario. Ricordatevelo quando di fronte a voi correranno uomini con la maglia a strisce, in bianco e nero.

No, Fiorentina – Juventus non è una partita come tutte le altre. Annusate l’aria fuori dal Franchi. Guardatevi intorno. Ascoltate la Fiesole. E giocate per una maglia che non è un amore sprecato. Per Firenze non lo è mai stato.

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Oje vita, oje vita mia

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Il calcio, i goal e gli inni intonati dai tifosi sono da mettere nella top ten della cose più belle della vita. Ma il fatto buffo è se ti salgono i brividi vedendo una tripletta,  guardando esultare un attaccante ventitreenne dell’Uruguay mentre uno stadio pullula di gente innamorata, felice, estasiata. La cosa buffa è se quell’attaccante non è quello della tua squadra del cuore e se lo stadio non è l’Artemio Franchi di Firenze ma il San Paolo di Napoli.

Strano ma vero, ieri sera, in una delle gare più esaltanti di questo campionato di Serie A gli azzurri di Mazzarri sono riusciti a far salire brividi di gioia a chiunque li abbia visti giocare contro una Juventus che era l’ombra di se stessa. Ma parlare di demeriti serve a poco quando il calcio racconta belle favole, passione, impegno, rinascita.  Napoli con mille problemi,  Napoli immersa nella spazzatura, Napoli che oggi sembra essere baciata dal sole anche quando piove, rinasce sull’erba di uno stadio.  E lo fa con un calcio che innamora dopo venti  lunghi anni. Gli spalti gremiti di pubblico sono un’eccezione che fa bene agli occhi di chi guarda mentre ovunque, in Italia, si vede solo cemento a vista, gradoni vuoti. Sessantamila spettatori hanno intonato ‘O surdato ‘nnamurato e anche a me,  da Firenze, seduta comodamente sul divano di casa mia davanti ad un televisore, è salita l’emozione, come se fossi sta lì.

Ho ripensato , come in un contropiede inaspettato, all’ultimo batticuore provato per la  mia Fiorentina, batticuore non dovuto certo né alla mega rimonta contro il Brescia di ieri né agli anni del “grande progetto” Della Valle,  bensì alla serie A riconquistata nel 2004,  in uno spareggio da cardiopalma contro il Perugia. A guidare quella squadra fatta di nomi che tutti facciamo ancora oggi fatica a ricordare, c’era Emiliano Mondonico, uno che la Fiorentina l’amava davvero. In campo scendeva ogni domenica la passione mentre si inseguiva un sogno, mentre il pallone scivolava a terra per  90 minuti di adrenalina pura. A differenza del Napoli quella non era una bella Fiorentina ma aveva qualcosa in comune con la squadra di Mazzarri: il cuore.

Quando una squadra ha piedi, cervello e cuore ha già tutto.  Ma se ai primi due togliamo l’ultimo, togliamo l’essenza vera del calcio, quella che porta ancora i  tifosi più appassionati  a popolare gli stadi, invece di guardare il calcio di Sky reso spettacolare dalla regia televisiva.  Il calcio senza i tifosi ha poco senso di esistere ed a parte la tripletta di quel talento esplosivo che è Edison Cavani, la pelle d’oca l’hanno data proprio quelle sessantamila anime in tripudio che cantavano Oje vita, oje vita mia. Non lo facevano con questa gioia sfrenata nella voce,  dai tempi di Maradona. E mentre a Firenze si fischia una squadra fantasma, non rimane altro che sognare con le vittorie altrui. Là dove il cuore, oltre al progetto, conta ancora qualcosa.

Calcio, tv e sconfitte. Quando “non ci resta che piangere”

Se ne tornò a casa mesto, in una domenica pomeriggio di quelle che ti viene il magone e non va né su né giù. Aprì la porta di casa silenziosamente, strusciò due o tre volte le scarpe al tappetino, come se volesse chiedere redenzione, per tutte le volte che invece, con le suole sporche aveva camminato sul marmo pulito, senza pensarci troppo su.

Non proferì parola. Appoggiò la sciarpa viola sul divano, piegandola a modo. Si guardò allo specchio. Aveva ancora indosso la maglia delle grandi vittorie. Quella che aveva portato fortuna negli anni e che aveva indossato in alcune occasioni particolari. Provò a ricordarle tutte quante. La prima fu nella stagione 1988/89, oltre vent’anni fa,  quando Stefano Borgonovo, su cross di Baggio, segnò il goal vittoria contro la Juve.  Indimenticabile. L’altra fu quando Batistuta zittì il Camp Nou, con una rete strepitosa davanti ad ottantamila tifosi catalani.  Rabbrividì, mentre l’azione gli passò davanti agli occhi. Violinto pensò  tra sé e sé che quel momento non l’avrebbe mai dimenticato nella vita e lo mise nella lista dei migliori. Non mancò di inserire anche la vittoria della Coppa Italia nel 2001 e la risalita in seria A con il Mondo, nel 2005, dopo gli anni della C2. Quel giorno pianse, pianse come non aveva mai fatto in tutta la vita. Abbracciò tutti quelli che si trovavano vicino a lui, come se fossero stati fratelli che non rivedeva da decenni.

Sorrise, ripensando alle trasferte, ai cori nei pulman insieme ai fiaschi di Chianti, ai pomeriggi passati ai campini del Campo di Marte quando, uscito dal lavoro, si ritrovava a far due chiacchiere da bar.  “Non so come mai  ma allo stadio  c’era sempre il sole – ricordò – sedendosi sul divano, vicino alla sua sciarpa viola”.

Quel giorno il primo freddo di fine ottobre gli aveva congelato le dita dei piedi e le estremità delle mani. Le strusciò l’una contro l’altra mentre in tv commentavano i risultati della domenica. Fiorentina ultima, sola, fanalino di coda per i viola di Mihajlovic – dicevano i giornalisti nei titoli di apertura. Provò a cambiare canale ma il calcio fa da padrona, si sa. Palloni ovunque.  Pensò che era rimasto uno dei pochi a prender freddo sui gradoni, perdere e tornare a casa con la coda tra le gambe.  I suoi amici, già da tempo, la partita preferivano vederla alla tv. Lui no. Da quarant’anni aveva l’abbonamento in Fiesole, in alto e al centro, che il campo lo si vede meglio. Era il posto che occupava anche suo padre, il posto dove aveva cantato le prime volte, dove si era fumato la prima sigaretta, dove aveva più volte perso la voce.

“Mi chiamo Violinto – uno con un nome così non può vedere la partita in tv – borbottò con se stesso mentre si toglieva le scarpe spingendo contro il calcagno per scalzarle. Andrò al Franchi fin quando le gambe mi ci porteranno, lo farò almeno per la buonanima di mio padre. Lo disse anche se il calcio degli ultimi anni non gli piaceva più. Quello spettacolarizzato della tv, dei primi piani da effetti speciali, delle telecamere che zummano prepotenti sul sudore, sui muscoli tirati dei giocatori. Primi piani, rallenty, replay. Regia perfetta. Da film. Appunto, da film. Ma il calcio è un’altra cosa. “Vuoi mettere vedere la Fiesole tutta viola, sentire i cori che rimbalzano da un orecchio all’altro, cantare, esultare. E a volte, perché no, piangere” – rimuginò ancora Violinto  – in preda ad un ragionamento dove a controbattere non c’era nessuno se non la tv e quella sciarpa che si trovava ad accarezzare come se fossero le mani di una donna.

Appoggiò la testa al cuscino. Guardò il soffitto. Ripensò alla sconfitta di quella domenica maledetta. E le parole dei giornalisti tornarono a fargli eco nella mente. “Fiorentina ultima in classifica. Fanalino di coda”. Il silenzio gli devastò l’anima, corse giù in fondo allo stomaco, come un sommergibile che sgancia bombe in mezzo al mare. Il “giochino” dei Della Valle si è rotto  – pensò. La storia del grande progetto, della mentalità vincente da imprenditori, della Cittadella. Alle parole bisogna dare concretezza.  Ad oggi non abbiamo vinto niente.  L’unica gioia è stato il tornare in Serie A. Ma il grande merito di quell’impresa che pareva impossibile è stato di quell’allenatore lombardo con il giglio stampato sul cuore, di una squadra con giocatori dei quali Violinto stentava a ricordare il nome.  Poi pensò agli ultimi campioni che gli avevano provocato l’accelerazione dei battiti, la tachicardia, l’adrenalina che correva come un velocista nelle vene.

Quei giocatori erano Omar Gabriel Batistuta e Manuel Rui Costa. Li aveva portati a Firenze un tale Vittorio Cecchi Gori, a suon di miliardi. Lui forse non aveva la mentalità dell’imprenditore vincente, ma qualcosa, l’ha pur  vinto  – soppesò Violinto valutando i pro e i contro della vecchia e della nuova Fiorentina.  E poi Vittorio si alzava in piedi sulla balaustra ad ogni goal, faceva colore – ricordò ancora sorridendo.

Chiuse gli occhi, si addormentò.  Non prima di aver avvolto la sciarpa viola di lana al collo. Quel tardo pomeriggio sognò una Fiorentina in bianco e nero, con lo stadio fitto di gente, poche telecamere e un biglietto in mano da strappare. Sognò il calcio. Quello che adesso non sentiva più così vicino. Tirò su con il naso, si rannicchiò, attorcigliando anche i pensieri. Nominò più volte e in più riprese Chiarugi e Montuori. Poi nominò suo padre  che invece, in più riprese si era rigirato nella tomba. E di viola gli era rimasta solo l’imbottitura in raso della cassa da morto.  Quando si svegliò penso di aver vissuto solo un brutto incubo. Dopo il caffè uscì di casa.  Fu il titolo, a caratteri cubitali, del Corriere dello Sport a ricordargli che quell’ultimo posto in classifica era vero, verissimo. Più delle promesse sventolate negli ultimi sette anni. Mannaggia al diavolo, imprecò. Poi non disse nient’altro. Il freddo di ottobre gli mangiò cuore e pensieri, stretti anche loro inesorabilmente all’ultimo posto della classifica.