martedì 19 marzo 2024   | intoscana.it
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La terrazza sul mondo

La mia terrazza sul mondo è qui. Non ce n’è un’altra, non potrebbe essere altrimenti. Solo qui l’orizzonte si confonde con il mare tanto da entrarne in simbiosi, come se avesse voglia di  fargli l’amore.
Da qui hai l’impressione di volare come se niente avesse peso. Fluttuare in dolci pensieri, discendere, riprendere quota, gustarsi il panorama.
Parliamo io e te, mentre il profumo della bouganville è prepotente e sincero. Si mischia a quello dei limoni che scendono fino alla strada, arroccati sui tornanti. Precipizi nel blu che non fanno paura. I colori di questo posto mi piacciono. Ti prendo per mano e ti trascino per farti vedere in lungo e in largo il giardino. Tu hai la cartina tra le mani, per decidere la strada da prendere e arrivare al porto, dove ci sono i marinai. Dove partono gli autobus pieni di turisti e la piazza della città pullula di cappellini variopinti per ripararsi dal sole.
Ho voglia di farti una, due, dieci foto. Ho voglia di rubare quel sorriso che hai oggi, fermarlo, dargli il sapore dell’infinito. Le foto servono a questo, a rubare attimi al tempo. A fermare gli stati d’animo, riempirli di eternità.
“Vorrei rimanere qui per sempre” – ti dico. E appoggio la testa sulla pietra fresca. Davanti solo azzurro. Tu non dici niente. Almeno non con le parole. Ma mi guardi come nessun altro ha mai saputo guardarmi. Sei dolce, adesso.
“Dopo due giorni scapperesti”- mi rispondi. “Può essere” .- replico mentre schiudo gli occhi. Sospiro. “Mi piacerebbe aprire un negozio di ceramiche. Così starei in mezzo ai colori tutto il giorno. Avrei tempo per due chiacchiere con i turisti. Avrei tempo per respirare quest’aria”.
“Sai cosa mi piace di questo posto?”
“Spara” – mi dici mentre fai la faccia attenta. Il sole ti si appoggia sugli occhi.
“La semplicità. La semplicità è straordinariamente affascinante sai“. Mi alzo dalla panchina. Appoggio le mani salde alla ringhiera della terrazza e ti guardo. E continuo. “Ci ho pensato stamani, quando facevamo colazione in giardino, con il caffellatte. Dietro di te conche di fiori, una bella giornata, il versò. Il tempo che poteva scorrere lento. Mi basta questo mi sono detta. La città mi uccide, mi uccidono i miliardi di auto che vagano lombricanti nel niente, le lancette dell’orologio che corrono  i cento metri, l’ufficio, il cellulare, la carriera. Vorrei solo te, un cavalletto per dipingere, una coca cola per quando mi prende sete, il mare, una playlist che viaggia a seconda del mio umore”.
Tu mi baci. Perchè i baci, come le fotografie, rubano attimi al tempo. Sai di zucchero filato, profumi di torte alla mela appena uscite dal forno, tu sai di buono.
“Andiamo” – ti dico . E prendiamo la strada più lunga, quella che passa dai limoneti, con il giallo che brilla sotto il sole. Centinaia di scalini portano verso il mare. E’ faticoso scendere un’intera collina a piedi ma solo così si possono vedere scorci fantastici. Solo così si ha la sensazione che quello che hai davanti sia solo tuo e di pochi altri. Questo mi piace davvero. Svegliarmi al mattino e vedere i colori cambiare con la luce che varia. Avere scorci solo per me. Mille sguardi diversi, diecimila finestre sul mondo. Voglio vedere sbocciare il fiore nel mio giardino che ieri ancora era chiuso, voglio assaporare ciò che mi sta intorno. Solo qui posso farlo. Questo è il mio posto nel mondo, la terrazza dell’infinito è casa mia. Il biglietto di ritorno lo regaliamo al mare penso. E lascio che l’acqua lo inghiotta, lo trascini negli abissi come se fosse pesante come un masso. Un gesto. Ed ho dato concretezza a un sogno. Da domani dipingerò ceramiche per i turisti.
Ti guardo. Tu sorridi. Ho fatto la scelta giusta. E continuo a scendere verso il mare, felice, sotto il sole di settembre.

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La valigia avida di sogni

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“Piove sul bagnato” -  rimuginava mio nonno seduto davanti ai vetri della finestra macchiati di gocce d’acqua battente.  Erano almeno tre giorni che pioveva ininterrottamente e non c’era nient’altro da fare che starsene chiusi in casa, con il camino acceso. Mia nonna lavorava a maglia per raggranellare qualche quattrino , che d’inverno faceva più che comodo e io altro non avevo  da fare che passare tutti i miei pomeriggi in soffitta.  Lì c’erano i giochi di mio padre, per lo più fatti in casa da mio nonno  che era un bravo artigiano e un ottimo intagliatore. Il mestiere l’aveva imparato da suo padre chissà quanti anni fa  e se ne era innamorato.  A terra,  poggiate nel mezzo della stanza su assi di legno, c’erano lunghe figure, colorate di rosso e di nero e occhi fatti da due semplici puntini buttati lì a caso. Assomigliavano a dei carabinieri, con alti cappelli che parevano potessero toccare il cielo.  Di lato, appoggiata alla parete c’era una vecchia sedia a dondolo e un abbozzo di capanna dove per Natale montavano il presepe. Era tutto intriso di polvere stantia, anche qualche bambola di mia zia, morbida di pezza cucita a mano. Ogni tanto provavo a frugare nella cassapanca anche se questo mi era stato vietato. Entrare nella soffitta era come volare dentro un mondo magico, dove ogni giorno potevo scoprire qualcosa di nuovo. Mi piaceva stare lì, da solo. Salire i due piani che dividevano la grande sala dove mangiavamo tutti insieme dalla zona riservata alle camere. Saltavo gli scalini di due in due nonostante gli strilli di mia nonna, fino a che non mi trovavo davanti la porta della soffitta. Pesa, con il chiavistello vecchio di ruggine e i tarli che l’avevano quasi divorata. A volte prima di entrare mi avvicinavo piano, senza aprirla. Attaccavo l’occhio sinistro ad uno dei grandi buchi, stretti e lunghi come feritoie, che si erano creati nel tempo. Chissà da quanto era lì quella porta. Nella casa del nonno come minimo c’erano nati anche il padre di mio nonno e non so di preciso quanti antenati della mia famiglia. Noi di cognome facciamo Merletti, proprio come quelle trine che piacciono tanto a mia madre e che mette sul tavolo quando arrivano gli ospiti.  Quando guardavo dal buco della porta speravo di trovare qualcosa di diverso. Ansimavo, nell’attesa che succedesse qualcosa di speciale, di inaspettato. Invece tutto era semplicemente inerte, baciato da un silenzio di pace. Quel pomeriggio non giocai con nessuno dei trabiccoli di legno costruiti da mio nonno. Rimasi semplicemente a guardare la pioggia incessante, ritmica che scendeva cadenzata riempiendo l’aia di acqua. Dapprima si crearono delle pozze, poi pian piano la pioggia invase il cortile di fronte a casa. Credevo di essere circondato da un lago. Intorno solo acqua, colori grigi e rumori di cielo arrabbiato. Mio nonno dormiva mentre la legna scoppiettava. Io rimasi un bel po’ con le mani chiuse appoggiate al mento, a guardare fuori. Non c’era la tv che avevo nella casa di città a farmi compagnia e neppure il mangiadischi rosso che mi raccontava la favola del Gatto con gli Stivali.  C’erano solo campi infiniti e case lontane, sperse all’orizzonte, vestiti lisi di lavoro e mani  spezzate dal freddo. Nient’altro.  Solo gambe per camminare lesti e mani forti  per lavorare la natura bizzosa. C’erano però i sorrisi di mia nonna e i suoi seni grandi dove poggiavo tenero la testa per addormentarmi.  Nel sonno sentivo i discorsi del nonno che si lamentava perché la stagione era stata cattiva. Meditava di andare lontano, in qualche paese fuori dall’Italia a fare fortuna. Io tenevo gli occhi chiusi e ascoltavo. Raccontava del Ballini, il proprietario del pezzo di terra accanto al suo che aveva vinto al Lotto. “Almeno lui ha smesso di lavorare, anche se, Anita lo sai, lì è piovuto sul bagnato.”  Mia nonna faceva grandi respiri ma non rispose.
“Che devo fare io? Devo andare a rubare?  -  Insistette alzando la voce – Che devo fare per dare un futuro a questo piccolo cristiano? In che mondo crescerà?” -  E si mise la testa tra le mani.
“Si sistemerà tutto “ – disse poi lei, con un filo di voce.

“Sì, prega pure il tuo Dio che tutto si sistemi ma ne dubito” – arrancò ancora rabbioso.

Quella sera cercai di non esagerare con le fette di pane con il prosciutto e per tutta la cena osservai il nonno e la nonna. Per la prima volta capii  come si sentono i poveri. Guardai dentro la faccia di chi non ha niente. Sarebbero stati felici se solo non fosse piovuto così tanto, se i campi fossero stati fertili di frutti e se io li avessi aiutati invece che stare a sognare chiuso in soffitta. Da domani tutto sarebbe cambiato. Io avrei rivoltato il mondo e avrei reso la mia famiglia felice per sempre. Avrei giocato al Lotto come il Ballini, i soldi li avevo nel salvadanaio di coccio. Avrei vinto così tanto denaro da comprare i campi di tutto Campogrosso. E mio nonno avrebbe messo il vestito buono, la mamma avrebbe inondato la casa di merletti profumati di bucato e mio padre avrebbe lasciato il lavoro in fabbrica. Ci sarebbe stato il sole ogni giorno e non saremmo dovuti andare via dall’Italia. Corsi fuori e con la vecchia scopa di saggina iniziai a spazzare la pioggia che inondava l’aia. Mia nonna corse fuori, prendendomi per un pazzo scellerato. Io ridevo. Ridevo e ancora ridevo, con la mia valigia avida di sogni tra le mani.

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Per la foto della valigia e del mimo ringrazio  lucam, andate a vedere il suo album su flickr!

La suggestiva immagine della pioggia è invece di Paf-Triz, anche questa presente su flickr a questo link

“Piove sul bagnato”, la frase con la quale ho iniziato il mio racconto è anche il titolo di un film del regista toscano Andrea Bruno Savelli, da qualche giorno nelle sale. Una frase, un modo di dire, che mi hanno ispirato questo racconto. Quindi…grazie Andrea! Vuoi vedere il suo profilo su Facebook e vedere il trailer del suo film? Clicca qui!

Brandelli di cuore

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Muove il vento le foglie del mio giardino e la loro ombra sul pavimento di casa le fa assomigliare ad acqua increspata. Sembrano foglie di limoni baciate di sole e il cielo mi appare come un’immensa distesa di mare. Sono in città e agosto sta finendo. Le mie ferie sono concluse, il frigo è vuoto e l’amore è ancora troppo lontano, almeno quanto la prossima estate. Guardo fotografie a colori che diventano dettagli da poter ingrandire sullo schermo del portatile, per ricordare meglio cosa ne è stato di ieri. Sul tavolo di casa finte margherite galleggiano in un vaso pieno zeppo di sabbia e mi ricordano che dovrei passare davanti ad uno specchio e spogliarmi delle cazzate che mi grondano addosso come pioggia insolente.

Ho solo ventisei anni. E i miei genitori quando sono nata hanno avuto la geniale idea di chiamarmi Gioia. Peccato che io, a differenza ciò che speravano per me, non sono affatto felice. Non so nemmeno cosa sia la gioia. Conosco piuttosto la malinconia devastante e impetuosa, vivo una felicità fatta di attimi, che non conosce spazi duraturi ma solo sfavillanti momenti di breve durata. Che non superano il tempo di un film, di una cena, dei fuochi arficiali. Che non vanno oltre il tempo di un esame, di una vacanza, di un sogno. E poi puf! Diventano niente. Crollano come fondamenta deboli, si sgretolano come la pelle bruciata dal sole.

“Gioia tesoro – legati quei capelli che ti si riversano sugli occhi. Hai un’aria così trasandata”. Sento la voce di mia madre, appena affacciata sul terrazzo. Annaffia le piante, getta via le foglie secche. Passo un dito al centro della montatura degli occhiali, per avvicinarli di più al naso. Per vederci chiaro mentre gli occhi affogano di lacrime. La voce di mia madre mi irrita in quel giorno così perfetto. Sarebbe un giorno bellissimo se solo fossi felice. C’è il fresco, il sole, c’è un aria bella da respirare. Ho ventisei anni. Ventisei. Che faccio qui, immobile di paura, avara di sogni? Aspetto un amore troppo lontano perché possa tornare. E mi accontento di niente, lasciando che il vento asciughi le guance bagnate e che il tempo rimetta insieme brandelli di cuore spenti di battiti.

“Gioia, cosa vuoi per cena stasera?”. Gioia? Gioia?!”.

Ho fame di felicità. Ma questo, mamma, non posso dirtelo.

Questo racconto mi è stato ispirato da due parole scritte da un amico di Facebook: Luca La Rocca. Vuoi vedere il suo profilo? Clicca qui!

Per la foto ringrazio Bimba81, andate a vedere il suo album su Flickr: cliccate qui!!!

Da grande

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“L’estate sta finendo…oggi diventi grande”. Così mi disse più o meno mio padre, dandomi una pacca sulle spalle con lo sguardo dritto verso l’orizzonte. Avevo sei anni e a settembre avrei frequentato la prima elementare. Avrei lasciato alle spalle gli anni dell’asilo, avrei dovuto imparare a leggere, a scrivere, a contare con i tappi smerlati dei succhi di frutta. Il babbo mi disse che in terza elementare sarei anche potuto andare a scuola da solo, attraversando l’unica strada che divideva casa mia dalla Duca degli Abruzzi. Gli ombrelloni blu, scoloriti di sole, erano tutti chiusi. La sabbia morbida non conosceva orme, solo il segno della rastrelliera del bagnino che dalla riva accarezzava la rena fino allo stabilimento. Il temporale del giorno prima aveva segnato la fine dell’estate e l’aria fresca mi ricordava che settembre era alle porte. Sarei diventato grande. Un po’ mi faceva paura questa cosa.

Cosa sarebbe cambiato?

A me, a dire il vero, i grandi non piacevano un granché. Avrei preferito diventare vecchio piuttosto che grande. I vecchi erano fertili di sorrisi e mi regalavano le caramelle alla menta. Mi difendevano quando la mamma mi brontolava e le gonne larghe della nonna erano il posto nel quale mi riparavo più volentieri. Lì ero al sicuro. Ai miei occhi i grandi erano sempre troppo tristi, non giocavano mai, ridevano poco e quando lo facevano non ne capivo bene il perché. I grandi non erano felici, ne ero certo. E poi la mamma mi aveva detto che quando sarebbe iniziata la scuola avrei dovuto giocare di meno e pensare a studiare. E perché mai?. Io volevo rimanere bambino. Io stavo bene così, perché avrei dovuto cambiare la mia condizione proprio adesso?

Anche mia sorella, maggiore di me di ben cinque anni, era diventata grande alla fine di una calda estate. Ricordo che piangeva. Aveva la faccia corrosa di lacrime, mentre belava di tormento. Invocava il nome di mia mamma come se stesse per morire. Corsi da lei e mi resi conto che il suo costumino bianco all’uncinetto era intriso di sangue vivo, rosso come quello che mi usciva dalle ginocchia quando cadevo con la bici sui sassi. La mamma la coprì con un asciugamano e la strinse forte. La baciò sulla fronte per tranquillizzarla, poi le disse. “Tesoro mio, non preoccuparti. Non è successo niente. Sei solo diventata grande. Adesso non sei più una bambina, sei una donna”.

A settembre iniziai la scuola e alla fine la mia vita non cambiò poi molto. Crebbe il numero dei miei amici e imparai a leggere ed a scrivere. Feci cinque centimetri in un anno e risultai tra i più alti della mia classe. Per il resto mi sentivo sempre lo stesso. Ero sempre io. Marco, figlio di Francesco Morandi e Anna Semplici.

Ripenso a tutta quella storia, seduto su un patino addormentato sulla spiaggia. Sono sempre io. Con quarant’anni e un matrimonio finito ieri, con l’estate che se ne sta andando anche senza i temporali che adesso, nel 2009, non ci sono arrivano più, regolari, a lasciare spazio all’autunno. Settembre giungerà lo stesso e non mi ricorderà che si diventa grandi. Io però forse lo dirò ai miei figli e così faranno a sua volta loro, tra qualche anno. Avevo ragione, crescere è una gran fatica. E la vita scorre mentre rincorri progetti. Rincorri scalini da salire. Gradini che ti dicono che sei arrivato, che sei un grande. Studiare, laurearsi, lavorare, fare carriera. Sposarsi, avere figli, prendere il mutuo, far sì che il tuo matrimonio sopravviva al tempo che incede. Mi sembra di sentire la mano di mio padre che mi batte ancora sulla spalla e il suo sospiro disperso nell’orizzonte. Adesso è un vecchio. Felice dei suoi nipoti come tutti i vecchi. E io sono sempre il solito figlio scontento, sono un cliché. Ma ho in serbo grandi cose per me. E correrò ancora. Il mare mi aspetterà come ogni anno e ogni estate, quando gli ombrelloni saranno chiusi e le spiagge vuote. Tirerò le somme, contando con i tappi smerlati dei succhi di frutta, come facevo a sei anni. Quando sono diventato grande. Per la prima volta.

Per la foto ringrazio Nuvola Rapida e le sue immagini di Flickr! Vuoi vedere il suo album? Clicca qui!

Il racconto mi è stato ispirato dallo status di Facebook di Marco Liorni…parlava dell’estate che finisce! Vuoi vedere il profilo di Marco su FB? Clicca qui!