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Le prime sere di primavera

Le prime sere di primavera allentano i pensieri. Si fanno lunghi, così che tu possa analizzarli nel profondo. Sono pensieri buoni, da assaporare gustandoseli tutti in questa notte che di buio non ha niente. La lampada dell’Ikea fa luce solo sullo schermo del pc e fuori non fa freddo. E’ solo primavera, finalmente. Ogni anno, quando aprile sta per arrivare, le giornate si fanno più lunghe e l’aria profuma di nuovo, mi sento una persona diversa. Come una crisalide che esce dal guscio. Che ha voglia di diventare farfalla. E volare. E’ una bella sensazione. Sono quei giorni in cui puoi sognare, sono una chiacchierata che ti rasserena, un bicchiere di vino con gli amici. Sono una canzone da cantare. Sei tu.

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La terrazza sul mondo

La mia terrazza sul mondo è qui. Non ce n’è un’altra, non potrebbe essere altrimenti. Solo qui l’orizzonte si confonde con il mare tanto da entrarne in simbiosi, come se avesse voglia di  fargli l’amore.
Da qui hai l’impressione di volare come se niente avesse peso. Fluttuare in dolci pensieri, discendere, riprendere quota, gustarsi il panorama.
Parliamo io e te, mentre il profumo della bouganville è prepotente e sincero. Si mischia a quello dei limoni che scendono fino alla strada, arroccati sui tornanti. Precipizi nel blu che non fanno paura. I colori di questo posto mi piacciono. Ti prendo per mano e ti trascino per farti vedere in lungo e in largo il giardino. Tu hai la cartina tra le mani, per decidere la strada da prendere e arrivare al porto, dove ci sono i marinai. Dove partono gli autobus pieni di turisti e la piazza della città pullula di cappellini variopinti per ripararsi dal sole.
Ho voglia di farti una, due, dieci foto. Ho voglia di rubare quel sorriso che hai oggi, fermarlo, dargli il sapore dell’infinito. Le foto servono a questo, a rubare attimi al tempo. A fermare gli stati d’animo, riempirli di eternità.
“Vorrei rimanere qui per sempre” – ti dico. E appoggio la testa sulla pietra fresca. Davanti solo azzurro. Tu non dici niente. Almeno non con le parole. Ma mi guardi come nessun altro ha mai saputo guardarmi. Sei dolce, adesso.
“Dopo due giorni scapperesti”- mi rispondi. “Può essere” .- replico mentre schiudo gli occhi. Sospiro. “Mi piacerebbe aprire un negozio di ceramiche. Così starei in mezzo ai colori tutto il giorno. Avrei tempo per due chiacchiere con i turisti. Avrei tempo per respirare quest’aria”.
“Sai cosa mi piace di questo posto?”
“Spara” – mi dici mentre fai la faccia attenta. Il sole ti si appoggia sugli occhi.
“La semplicità. La semplicità è straordinariamente affascinante sai“. Mi alzo dalla panchina. Appoggio le mani salde alla ringhiera della terrazza e ti guardo. E continuo. “Ci ho pensato stamani, quando facevamo colazione in giardino, con il caffellatte. Dietro di te conche di fiori, una bella giornata, il versò. Il tempo che poteva scorrere lento. Mi basta questo mi sono detta. La città mi uccide, mi uccidono i miliardi di auto che vagano lombricanti nel niente, le lancette dell’orologio che corrono  i cento metri, l’ufficio, il cellulare, la carriera. Vorrei solo te, un cavalletto per dipingere, una coca cola per quando mi prende sete, il mare, una playlist che viaggia a seconda del mio umore”.
Tu mi baci. Perchè i baci, come le fotografie, rubano attimi al tempo. Sai di zucchero filato, profumi di torte alla mela appena uscite dal forno, tu sai di buono.
“Andiamo” – ti dico . E prendiamo la strada più lunga, quella che passa dai limoneti, con il giallo che brilla sotto il sole. Centinaia di scalini portano verso il mare. E’ faticoso scendere un’intera collina a piedi ma solo così si possono vedere scorci fantastici. Solo così si ha la sensazione che quello che hai davanti sia solo tuo e di pochi altri. Questo mi piace davvero. Svegliarmi al mattino e vedere i colori cambiare con la luce che varia. Avere scorci solo per me. Mille sguardi diversi, diecimila finestre sul mondo. Voglio vedere sbocciare il fiore nel mio giardino che ieri ancora era chiuso, voglio assaporare ciò che mi sta intorno. Solo qui posso farlo. Questo è il mio posto nel mondo, la terrazza dell’infinito è casa mia. Il biglietto di ritorno lo regaliamo al mare penso. E lascio che l’acqua lo inghiotta, lo trascini negli abissi come se fosse pesante come un masso. Un gesto. Ed ho dato concretezza a un sogno. Da domani dipingerò ceramiche per i turisti.
Ti guardo. Tu sorridi. Ho fatto la scelta giusta. E continuo a scendere verso il mare, felice, sotto il sole di settembre.

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La mia estate del ‘69

C’è freddo che arriva da un maledetto spiffero tagliente e non mi fa dormire. Sono giorni che mi dico che l’aggiusterò ma poi, da coglione quale sono, me ne dimentico sempre. Così rimango a tremare con la pelle di gallina che mi fa sembrare più un piccione spennato pronto per essere cucinato che semplicemente quel che sono, un bischero in mutande davanti ad una finestra umida. Guardo fuori mentre Bryan Adams canta Summer of 69 dentro YouTube, che lo stereo di una volta non va più di moda nemmeno a casa mia.

Faccio scorrere un finto plettro su una finta stratocaster che credo di avere tra le mani. Ma mimo soltanto. Eppure mi pare di sentirla vibrare mentre canto a squarciagola una canzone che miliardi di volte mi ha accompagnato in auto sulle strade della notte. D’improvviso, quando la canzone finisce e la carica di adrenalina svanisce, galleggiano i ricordi. E penso a YouTube, all’Iphone, alla musica sul cellulare. Musica come vuoi, quando vuoi e per quanto tempo desideri. Wow mi verrebbe da dire ma poi, riflettendoci su mi è tornato alla mente quando, da ragazzino, stavo a ore con il dito premuto sul rec dello stereo per registrare una canzone appena uscita alla radio. E in quegli anni la musica per me era come una ragazza alla quale ancora non hai dato il primo bacio.  Non vedevi l’ora di ascoltarla quella canzone, perché non ti bastava canticchiarla solitario, la volevi sentire. E quando scorrevi tutte le frequenze AM ed FM e la beccavi all’inizio della prima nota, era il top. Potevi registrarla e ascoltartela milioni di volte, ancor prima che uscisse il disco. Troppo più bello, non c’è che dire.

In quegli anni accadeva spesso che andassi al negozio di dischi sotto casa di mia nonna. Dentro c’era un simpatico ragazzo dai capelli rossi. A lui canticchiavo qualche pezzo sentito in radio e del quale non ricordavo il titolo. Uscivo sempre dal negozio con un 45 giri e un 33. Ero soddisfatto, soprattutto quando nel long playing, c’era una bella copertina con tutti i testi. La musica, allora, era più magica. O forse sono solo io che sono vecchio, con la pelle rattrappita dal freddo ed una finestra rotta che mi congela la ghiandola del buonumore.

Ci penso quando, sempre dal famigerato YouTube parte Vasco. Canta “Odio il lunedì”. E la mia donna balla, davanti al computer. Mi sorride ed ho voglia di lei. Mi sento uno scemo del duemila. In boxer. Riprendo la mia finta stratocaster in mano e mando al diavolo tutti i ragionamenti sconclusionati degli ultimi venticinque minuti. “Chi troppo pensa poco vive” – rimugino ancora filosofeggiando prima di mandare tutto al diavolo e cantare la mia estate del 69. Anche senza premere il Rec.

Il sapore della felicità

Le barche erano intrise di salmastro, strisce d’azzurro corrose dal sole . Il legno si bagnava di mare nei punti dove il bianco smaltato aveva ceduto. Io me ne stavo disteso in quella conchiglia allungata che dondolava tra le onde, ancorata al piccolo porticciolo naturale di fronte al castello. Correvo lì al mattino presto, quando ancora i taxi di mare non partivano. Così potevo starmene accovacciato nell’umidità del giorno che arrivava, con le gambe che cercavano spazio tra i remi appoggiati nel pagliolo. Portavo le braccia incrociate dietro la testa, all’altezza della nuca, a mò di cuscino. Guardavo il cielo e, poco più in là, il Castello Aragonese. Così grande, massiccio che pure i flutti di mare potevano farsi male quando si infrangevano ai suoi piedi. Da lì potevo ascoltare il mondo. Con una musica che mai più ho avuto modo di sentire. I gozzi che sciaguattavano come lavandaie nei fiumi, le finestre che si aprivano cigolando di mattino presto, i primi passi, strusciando sull’asfalto del ponte erano dolci suoni per le mie orecchie di bambino. Ogni tanto chiudevo gli occhi per sentirli meglio. Mi concentravo e riuscivo ad avvertire anche il battito d’ali dei gabbiani che planavano dall’ala est del Castello, volavano in mare. Pescavano. A volte scappavo dal letto della nonna e correvo nella notte al porticciolo. Volevo vedere le stelle cadere nel mare. Quando tutto è buio, così buio che mi faceva timore. E il mare era nero. Ma in più punti le luci lo facevano tremolare, come quando la luce elettrica ci abbandonava improvvisa ed a casa accendevamo le candele. Le mura tremolavano anche loro. Io mi divertivo, mi eccitavo, l’adrenalina saliva potente. Le candele erano il gioco inaspettato che cambiava faccia alla noia della notte. Fatta per dormire anche quando non ne hai voglia. E la faccia della mamma diventava arancio e se passavo le mani vicino alla fiamma, l’ombra delle dita diveniva gigante. La notte al porticciolo le stelle facevano oscillare l’acqua.

Il Castello sembrava affondare nel buio. Sprofondare nel mare. Avevo così tanta paura delle mie fantasie che aspettavo con ansia l’arrivo del giorno. Il cielo tinto di rosa, striato di blu cobalto e poi il sole. Rimanevo disteso fin quando non avvertivo l’odore del pane uscire dal forno del Boccia. Tutti, dal porto al ponte, facevano lunghe file per il filone da un chilo. Io mi presentavo quando ancora la bottega non era aperta. Mi affacciavo al laboratorio e il Boccia passava la mano infarinata sui miei capelli. Mi porgeva un panino che scottava come il sole di Ferragosto ed io, solo ringraziando con un gesto della testa, correvo via. Forte, fortissimo. Come se nelle mani avessi nascosto il tesoro di Sant’Anna. Come se i fantasmi delle Clarisse del Castello mi inseguissero per i vicoli del borgo. Le gambe mi portavano fin quando il fiato teneva. Le salite di Cartaromana non mi intimorivano. Arrivavo in alto, là dove potevo riposarmi nel verde, guardando il mare divenuto piatto come una tavola. Calmo. Il mio cuore invece saltava come un canguro impazzito. Le mani rosse stringevano ancora il panino del Boccia. Mi sedevo, su una pietra che rinfrescava i pensieri, addentando il primo boccone del giorno. Sapeva di farina buona e di sale. L’aria era quella dell’isola. Corsi verso casa prima che la nonna si svegliasse. Prima che i taxi di mare portassero i turisti a vedere i sassi multiformi spuntare dal mare come magiche ninfe.

Il giornalaio in piazza aggiustava le locandine. Passai dal retro del piccolo giardino dove la nonna aveva piantato due alberi. Un arancio e un limone che, come diceva sempre lei, non potevano mancare in una casa dell’isola verde. Dormiva. I capelli raccolti, le rughe appoggiate morbide sul viso. Lasciai i vestiti salati sulla sedia, dove li avevo riposti la sera prima. Andai a letto vestito solo delle mutande bianche di cotone che mi lasciavano il segno perché erano strette. Quel giorno mi addormentai pensando che da grande avrei vissuto così. Respirando a pieni polmoni le cose semplici della vita. Provando ad udire passi, battiti d’ali, penne biro su fogli a quadretti, ascoltando il rumore della carta dell’ortolano quando c’infila a forza il chilo e mezzo di pesche. Innamorato del suono della mattina, di spiragli di sole appoggiati sul pavimento. Di odore di bucato e profumo d’acqua ghiaccia sul viso. Di pane caldo e di farina sui capelli che spesso attaccavo al cuscino.

E stanotte mi addormento, con l’azzurro delle barche del porticciolo negli occhi, in una città del centro Italia, così rumorosa da non avvertire neppure un suono diverso dall’altro. Penso che domani partirò, mi dico. Nella tasca della mia giacca ho sempre un biglietto del treno, pronto per essere obliterato anche se oggi non serve più.

Posso partire, ripeto. Un gozzo, là nel mare forse mi aspetta ancora.

La notte

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La notte. Mi piace quella buia, con poca luce ma nella quale puoi vedere il mondo. Quella che cala e ti accarezza una spalla, scende lieve sugli occhi, schiude le palpebre. La notte che non ti fa venire voglia di andare a dormire. Quando piuttosto prenderesti l’auto e non vorresti altro che un cd nel lettore, con la musica che ti penetra l’anima. Di notte. Nella notte. E la strada è più fluida, senza traffico. E gli alberi ti accompagnano lo sguardo, dritti, in fila l’uno dopo l’altro. Cammini sull’olio. Prima, seconda, terza. Un semaforo rosso. Perchè di notte anche i semafori rossi sono belli. Perché quando diventa buio è emozionante anche fermarsi. Lasciare sedimentare i pensieri, mentre appoggi la testa, metti la folle e aspetti il verde. Tutto è più lento. E il tempo sembra infinito. E quando vai a letto puoi finalmente sognare. Vicino, lontano. Sognare sul cuscino dove appoggi i pensieri, dove immagini momenti. Dove ti fermi a riflettere, guardando il soffitto buio. E arriva l’alba. Insieme a nuove parole.

Ieri a Faceradio il tema era portante della puntata è stata la notte: quando sono tornata a casa, in auto, un cd di venti canzoni mi ha accompagnato i pensieri. E oggi con queste poche righe ho voluto fermare quel momento. Che sa prepontemente di notte.