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La terrazza sul mondo

La mia terrazza sul mondo è qui. Non ce n’è un’altra, non potrebbe essere altrimenti. Solo qui l’orizzonte si confonde con il mare tanto da entrarne in simbiosi, come se avesse voglia di  fargli l’amore.
Da qui hai l’impressione di volare come se niente avesse peso. Fluttuare in dolci pensieri, discendere, riprendere quota, gustarsi il panorama.
Parliamo io e te, mentre il profumo della bouganville è prepotente e sincero. Si mischia a quello dei limoni che scendono fino alla strada, arroccati sui tornanti. Precipizi nel blu che non fanno paura. I colori di questo posto mi piacciono. Ti prendo per mano e ti trascino per farti vedere in lungo e in largo il giardino. Tu hai la cartina tra le mani, per decidere la strada da prendere e arrivare al porto, dove ci sono i marinai. Dove partono gli autobus pieni di turisti e la piazza della città pullula di cappellini variopinti per ripararsi dal sole.
Ho voglia di farti una, due, dieci foto. Ho voglia di rubare quel sorriso che hai oggi, fermarlo, dargli il sapore dell’infinito. Le foto servono a questo, a rubare attimi al tempo. A fermare gli stati d’animo, riempirli di eternità.
“Vorrei rimanere qui per sempre” – ti dico. E appoggio la testa sulla pietra fresca. Davanti solo azzurro. Tu non dici niente. Almeno non con le parole. Ma mi guardi come nessun altro ha mai saputo guardarmi. Sei dolce, adesso.
“Dopo due giorni scapperesti”- mi rispondi. “Può essere” .- replico mentre schiudo gli occhi. Sospiro. “Mi piacerebbe aprire un negozio di ceramiche. Così starei in mezzo ai colori tutto il giorno. Avrei tempo per due chiacchiere con i turisti. Avrei tempo per respirare quest’aria”.
“Sai cosa mi piace di questo posto?”
“Spara” – mi dici mentre fai la faccia attenta. Il sole ti si appoggia sugli occhi.
“La semplicità. La semplicità è straordinariamente affascinante sai“. Mi alzo dalla panchina. Appoggio le mani salde alla ringhiera della terrazza e ti guardo. E continuo. “Ci ho pensato stamani, quando facevamo colazione in giardino, con il caffellatte. Dietro di te conche di fiori, una bella giornata, il versò. Il tempo che poteva scorrere lento. Mi basta questo mi sono detta. La città mi uccide, mi uccidono i miliardi di auto che vagano lombricanti nel niente, le lancette dell’orologio che corrono  i cento metri, l’ufficio, il cellulare, la carriera. Vorrei solo te, un cavalletto per dipingere, una coca cola per quando mi prende sete, il mare, una playlist che viaggia a seconda del mio umore”.
Tu mi baci. Perchè i baci, come le fotografie, rubano attimi al tempo. Sai di zucchero filato, profumi di torte alla mela appena uscite dal forno, tu sai di buono.
“Andiamo” – ti dico . E prendiamo la strada più lunga, quella che passa dai limoneti, con il giallo che brilla sotto il sole. Centinaia di scalini portano verso il mare. E’ faticoso scendere un’intera collina a piedi ma solo così si possono vedere scorci fantastici. Solo così si ha la sensazione che quello che hai davanti sia solo tuo e di pochi altri. Questo mi piace davvero. Svegliarmi al mattino e vedere i colori cambiare con la luce che varia. Avere scorci solo per me. Mille sguardi diversi, diecimila finestre sul mondo. Voglio vedere sbocciare il fiore nel mio giardino che ieri ancora era chiuso, voglio assaporare ciò che mi sta intorno. Solo qui posso farlo. Questo è il mio posto nel mondo, la terrazza dell’infinito è casa mia. Il biglietto di ritorno lo regaliamo al mare penso. E lascio che l’acqua lo inghiotta, lo trascini negli abissi come se fosse pesante come un masso. Un gesto. Ed ho dato concretezza a un sogno. Da domani dipingerò ceramiche per i turisti.
Ti guardo. Tu sorridi. Ho fatto la scelta giusta. E continuo a scendere verso il mare, felice, sotto il sole di settembre.

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La mia estate del ‘69

C’è freddo che arriva da un maledetto spiffero tagliente e non mi fa dormire. Sono giorni che mi dico che l’aggiusterò ma poi, da coglione quale sono, me ne dimentico sempre. Così rimango a tremare con la pelle di gallina che mi fa sembrare più un piccione spennato pronto per essere cucinato che semplicemente quel che sono, un bischero in mutande davanti ad una finestra umida. Guardo fuori mentre Bryan Adams canta Summer of 69 dentro YouTube, che lo stereo di una volta non va più di moda nemmeno a casa mia.

Faccio scorrere un finto plettro su una finta stratocaster che credo di avere tra le mani. Ma mimo soltanto. Eppure mi pare di sentirla vibrare mentre canto a squarciagola una canzone che miliardi di volte mi ha accompagnato in auto sulle strade della notte. D’improvviso, quando la canzone finisce e la carica di adrenalina svanisce, galleggiano i ricordi. E penso a YouTube, all’Iphone, alla musica sul cellulare. Musica come vuoi, quando vuoi e per quanto tempo desideri. Wow mi verrebbe da dire ma poi, riflettendoci su mi è tornato alla mente quando, da ragazzino, stavo a ore con il dito premuto sul rec dello stereo per registrare una canzone appena uscita alla radio. E in quegli anni la musica per me era come una ragazza alla quale ancora non hai dato il primo bacio.  Non vedevi l’ora di ascoltarla quella canzone, perché non ti bastava canticchiarla solitario, la volevi sentire. E quando scorrevi tutte le frequenze AM ed FM e la beccavi all’inizio della prima nota, era il top. Potevi registrarla e ascoltartela milioni di volte, ancor prima che uscisse il disco. Troppo più bello, non c’è che dire.

In quegli anni accadeva spesso che andassi al negozio di dischi sotto casa di mia nonna. Dentro c’era un simpatico ragazzo dai capelli rossi. A lui canticchiavo qualche pezzo sentito in radio e del quale non ricordavo il titolo. Uscivo sempre dal negozio con un 45 giri e un 33. Ero soddisfatto, soprattutto quando nel long playing, c’era una bella copertina con tutti i testi. La musica, allora, era più magica. O forse sono solo io che sono vecchio, con la pelle rattrappita dal freddo ed una finestra rotta che mi congela la ghiandola del buonumore.

Ci penso quando, sempre dal famigerato YouTube parte Vasco. Canta “Odio il lunedì”. E la mia donna balla, davanti al computer. Mi sorride ed ho voglia di lei. Mi sento uno scemo del duemila. In boxer. Riprendo la mia finta stratocaster in mano e mando al diavolo tutti i ragionamenti sconclusionati degli ultimi venticinque minuti. “Chi troppo pensa poco vive” – rimugino ancora filosofeggiando prima di mandare tutto al diavolo e cantare la mia estate del 69. Anche senza premere il Rec.

La notte

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La notte. Mi piace quella buia, con poca luce ma nella quale puoi vedere il mondo. Quella che cala e ti accarezza una spalla, scende lieve sugli occhi, schiude le palpebre. La notte che non ti fa venire voglia di andare a dormire. Quando piuttosto prenderesti l’auto e non vorresti altro che un cd nel lettore, con la musica che ti penetra l’anima. Di notte. Nella notte. E la strada è più fluida, senza traffico. E gli alberi ti accompagnano lo sguardo, dritti, in fila l’uno dopo l’altro. Cammini sull’olio. Prima, seconda, terza. Un semaforo rosso. Perchè di notte anche i semafori rossi sono belli. Perché quando diventa buio è emozionante anche fermarsi. Lasciare sedimentare i pensieri, mentre appoggi la testa, metti la folle e aspetti il verde. Tutto è più lento. E il tempo sembra infinito. E quando vai a letto puoi finalmente sognare. Vicino, lontano. Sognare sul cuscino dove appoggi i pensieri, dove immagini momenti. Dove ti fermi a riflettere, guardando il soffitto buio. E arriva l’alba. Insieme a nuove parole.

Ieri a Faceradio il tema era portante della puntata è stata la notte: quando sono tornata a casa, in auto, un cd di venti canzoni mi ha accompagnato i pensieri. E oggi con queste poche righe ho voluto fermare quel momento. Che sa prepontemente di notte.

Cuore acustico

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Quando mia madre decise di impiantarmi un cuore con le casse acustiche non è che ne fossi molto contento. Sentivo rimbalzare la voce dallo sterno allo stomaco, provocandomi sussulti improvvisi. C’era una sorta di aria rumorosa che si faceva strada dentro di me, estranea . Di certo non era la benvenuta. Quando suonava il rock ‘n roll però che gioia. Una scarica elettrica mi percorreva i capelli rosso fuoco, incendiati come i campi di grano in estate. E le efelidi si coloravano vistose sui piedi scalzi che correvano per la campagna. Saltellavo tra le zolle di terra mentre il ritmo aumentava i battiti del cuore. Pulsava nervoso come quando si fa l’amore. Pompava sogni. Vibrava come le corde della chitarra schiacciata sul manico da dita sicure in mezzo ad accordi stonati. Mi rimbalzava nell’anima senza farci troppo caso. Mia madre decise di impiantarmi quelle casse così, per sfizio terreno. Ero il primo sulla terra ad avere un cuore acustico. Una sala prove impiantata tra vene, sangue e carne da macello. Qualche colpo di batteria mi faceva sussultare, di notte. Ero un diverso. L’unico a dover convivere con corpo estraneo e rumoroso dentro di sé. Un apparecchio che non si poteva spengere. Non bastava staccare la luce, togliere le pile, staccare la spina. La musica partiva con lo scorrere del sangue. Se avesse smesso di suonare sarei morto. E così continuai a convivere con quello strano oggetto metallico che mi suonava dentro. Mangiavo mentre Boy George cantava Karma Chameleon. Di pomeriggio prima dell’aperitivo delle sette partiva Bryan Adams con Summer of 69. Di solito cuore acustico metteva pure il replay. A volte, quando proprio era in vena, si divertiva a mixare qualche brano. Solo la notte mi concedeva riposo. Ma io sentivo qualcosa di troppo metallico girovagarmi dentro. Avrei voluto anche io un cuore come tutti. Rosso come quelli che Cupido trafiggeva sull’onda del mito, che pulsasse per un’emozione e non sull’onda del ritmo della techno. Una notte pregai Iddio perché mi regalasse un cuore vero. Piansi e avvertii le lacrime scendere lungo la gola fino a far presa sulle casse acustiche. Ci fu un black out. Il corpo si spense, chiuse i battenti. Nessun rumore, se non quello della mia voce. Nessuna nota invasiva e invadente. Ero vuoto di scariche elettriche, di ritmi danzanti. Toccai il petto, non avvertendo più la spigolosità delle casse. Avvertii la carne aderire morbida allo sterno, la pelle rilassata. La musica adesso avrei solo dovuto ascoltarla. Avrei potuto scegliere. Quella notte avevo ospitato Betta a casa mia. Mi sentì sussultare e corse verso di me. Allargò le braccia e mi strinse. Claudio Baglioni non cantò “Questo piccolo grande amore” e io fui libero di amarla per sempre. E la musica, stavolta, non era più solo rumore.

In una piovosa mattina di ottobre, l’idea di questo racconto è arrivata dopo aver letto lo status su Facebook di Benedetto Ferrara che scriveva: “Cuore nostalgico e una traccia di nostalgia”. Vuoi leggere il suo blog Rock &Goal su Repubblica.it, clicca qui!

Leonardo cerca una connessione decente…

Si chiama Leonardo la persona che ha ispirato il primo racconto di Faccialibro Tales. Voglio aprire con lui perchè l’idea di questo blog nasce proprio da un suo stato pubblicato su Facebook un pò di tempo fa. Accanto al suo nome e cognome c’era scritto: “Leonardo cerca una connessione decente…con l’esistenza”. Ho letto ed immaginato. E questo post è il risultato dei miei pensieri, ovviamente frutto della fantasia, ripensando a Leonardo e a ciò che aveva scritto. Buona lettura,

Simona

1971 FENDER TELECASTER da vintageguitarz.

Erano ore che Leonardo cercava una connessione decente. Davanti al suo MAC appena comprato e con i tre cellulari buttati alla rinfusa sulla scrivania, meditava come poterla trovare. Skype si illuminava di messaggi ai quali non avrebbe risposto e le righe orizzontali del suo maglione gli aprivano vie infinite di tormenti. Dette un’occhiata fugace alla sua chitarra, una Fender Telecaster del 75 appoggiata sulle lenzuola del letto disfatto. Gli aveva fatto compagnia durante una notte nella quale non era stato buono a chiudere occhio ma proprio quella stessa notte era riuscito a partorire il suo pezzo migliore. Ancora non aveva deciso come l’avrebbe chiamato e quella ricerca del titolo, l’aveva reso un po’ inquieto. Sorseggiava qualche goccio di prosecco svanito, rimasuglio di qualche sera prima, dopo una serata di baldoria con gli amici. Scese giù veloce dalla gola e calò diretto nello stomaco, depositandosi sul fondo. Sentì uno strano senso di vuoto e l’eco degli accordi rimpastati qualche ora prima, mentre con il plettro animava suoni scordati. Guardò la sua immagine riflessa nel mega schermo del Mac e notò che i capelli avevano risentito nuovamente dell’umidità, increspati e inviperiti come serpi sulla testa di Medusa. Così provò a stirare i due ciuffi che gli ricadevano sugli occhi, tirandoli con il pollice e l’indice uniti. Della connessione invece neppure l’ombra. Ancora troppo rallentata. A volte sembrava che fosse riuscito quasi a ripristinarla ma quando provava a collegarsi ecco che crollava nuovamente. Così decise semplicemente di aspettare, afferrò una matita, prese il primo foglio bianco a portata di mano e buttò giù qualche fumetto per ingannare il tempo. Giocò con le linee e i contorni, riempì di nero qualche spazio e sfregò di lato la matita per i chiaroscuri. Le note nella sua testa, però, risultavano ancora troppo indecise. La connessione era stata perfetta tutta la notte, ma quella mattina l’aveva proprio dannatamente abbandonato. Inspiegabilmente abbandonato. Era stata pressochè perfetta mentre suonava e la sua voce l’aveva sentita micidiale, uscire profonda e disperdersi in armonia con le pareti della stanza. In quella notte il suo mondo era lì. Tra il pc, i muri intrisi di pensieri, la sua Fender e qualche parola che si era data una stretta di mano con la musica. Non avrebbe desiderato altro. E si era sentito Dio. Ma quella fottuta mattina aveva perso di nuovo la connessione. “Riuscirò mai a trovarla, a mantenerla costante, equilibrata?” – si chiese mentre sentiva l’inquietudine infilarsi alle pareti delle sue interiora. E mise di nuovo mano al computer alla ricerca della sua connessione decente…con l’esistenza.

Il Leonardo del racconto vi ha incuriosito? Andate a scoprire quello vero!