Ho voglia di Natale. Di quando il mondo si ferma e non ce n’è per nessuno. Di negozi chiusi, di poche auto, di serenità. Vera o presunta. Di luci che brillano ovunque e ti finiscono gli occhi, di diapositive da proiettare dopo il pranzo a ricordare ieri. Ho voglia di risate che sanno di famiglia e di quegli abbracci che sono più calorosi del solito. E di te che mi apri la porta mentre fuori è inverno e sei bella come sempre anche quando cucini. Prepari i crostini e la maionese mentre pian piano arrivano gli altri. A casa tua c’è calore anche se non c’è il caminetto, se non c’è un fuoco che colora d’arancione. E di rosso. Noi insieme – nonostante tutto, nonostante le litigate, la rabbia, il risentimento, le improvvise gelosie, le incomprensioni e le paure– ci siamo sempre divertiti. Come quando hai preso in affitto quella casa al mare sopra la rosticceria del Lido. Ero piccola ma lo ricordo come se fosse adesso. L’umidità penetrava aggressiva tra i fili di lana del maglione lavorato ai ferri da Zia Tina e gocciolava lungo le mattonelle della cucina. Il riscaldamento non funzionava. Ma le risate, sotto ai pannolani pesanti, di notte quando ancora non c’erano i piumoni, non ce le toglieva nessuno. E quelle lenzuola di cotone così fredde che ci stringevamo tutti quanti per trovare un po’ di tepore. Quella casa di fortuna, una grande fregatura. Eppure eravamo felici. Felici con niente. Era Natale. Le mareggiate regalavano pezzi di legno dalle forme più strane, adagiati sulla battigia, corrosi dal salmastro, domati dall’acqua. Io li raccoglievo, mentre mio padre mi teneva per mano. Tu eri lì, con Jacopo stretto al seno, piccolo piccolo. E poi Monica, Betty, la mamma, il nonno e i suoi lunghi cappotti, quelle mani grandi che alzava al cielo per salutare le persone, per catturare il vento. C’era nebbia e le luci parevano immense, a tratti dense e poi leggere. Impalpabili. I grandi dicevano che il Natale fa tristezza. A me invece sembrava bellissimo. Eravamo tutti insieme. C’eri tu.
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Sei bella, non c’è che dire. Sei bella mentre mi guardi, con la pelle che brilla di sole e le rughe morbide appoggiate sul volto. Sei bella con quel cappellino da spiaggia e le sopracciglia curate, con le labbra rosse di ciliegie, brillanti come il mare che ami. Sembri una lucertola, con gli occhi socchiusi vicino al cielo di agosto. E’ il 2008 e la tua sedia da regista è sulla spiaggia, ‘che a te non sono mai piaciute le sdraio ed i lettini. Ogni tanto mi guardi e poi sorridi mentre ti faccio una foto. Ne faccio tre o quattro perché oggi mi piaci proprio tanto. La collana verde risalta sull’abbronzatura che sembra essere nata con te e credo che oggi, sia uno di quei giorni nei quali potresti far girare il mondo sopra a un dito.
Ti chiedo perché ti sei truccata per venire sulla spiaggia e tu mi dici che devi incontrare una vecchia conoscenza, la proprietaria di un hotel del Lido. Mi dici anche che lei ha ti ha sciorinato, nell’ultima vostra telefonata, tutti i successi ottenuti negli ultimi anni da lei e dai suoi figli. “Vuoi farti vedere in forma anche tu eh?” ti chiedo mentre mi fai cenno di sì con la testa.
“Non ne hai bisogno sai – vorrei risponderti – che tu sei una delle donne più affascinanti sulla faccia della terra anche senza aver vinto mai niente. Lo so che tu avresti voluto che la tua creatività fosse esplosa anche fuori dalle mura di casa, che il talento fosse divenuto un lavoro, che le poesie che scrivi potessero dare un senso vero alle parole ed essere “ascoltate” da qualcuno”.
Ma non ti dico niente.
Così parliamo del più e del meno. Tiri fuori un pezzo di focaccia dalla borsa, come quando avevo cinque anni e me la porgi, strappandone un pezzo. C’è anche la frutta mi dici, prendila, è fresca. Appoggi la mano sul mio braccio e mi accarezzi, con il dito pollice che si muove a destra e sinistra, con movimenti regolari. Al polso hai l’orologio di tuo padre, non te ne separi mai e io lo guardo mentre le lancette dorate luccicano sotto il sole delle tre e mezza.
Luccicavano anche dalle foto scattate in quel giorno e che ho riguardato ieri sera, ingrandendole più volte ed in più punti per ricordarmi meglio di te, oggi che non ci sei più. Per perdermi su ogni espressione, particolare, su ogni accenno di sorriso, sui tuoi occhi che con uno sguardo dicevano tutto. Mancava solo la tua voce, ma tu eri lì comunque, io lo so. Ti ho detto buonanotte e ti ho mandato tre baci, come mi hai chiesto l’ultima volta. Era settembre.
A Tecla.
A te, che piaceva tanto questa “Canzone”
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All’ultima fila di ombrelloni, vicino al tavolino da ping pong, ci sono le altalene. Mio nonno mi ci porta sempre. Mi solleva, mi aggiusta sulla seduta di legno corroso di mare. Io afferro le catene, strette strette, come mi dice sempre lui. “Non lasciarle mai, per nessun motivo”- si raccomanda. Ha il cappello in testa, le merit infilate nel costume.
“Sei pronta?” – mi chiede.
“Sì, nonno. Fammi volare!”.
Lui si porta dietro le mie spalle strette di bambina, cotte di sole. Prende le catene tra le mani. Cigolano. Sento che mi porta indietro, per darmi la rincorsa. Poi mi lascia andare. E io volo. Dapprima piano, poi sempre più forte. Fletto le ginocchia, come mi ha insegnato il nonno, così riesco a tagliare l’aria ed andare sempre più alto. Arrivare lontano mi piace. Quando l’altalena fa sempre più rumore e vedo gli altri bambini in fila ad aspettare il loro turno. Sono più piccoli di me. A loro è vietato volare così alto. Io invece riesco a rasentare il cartellone pubblicitario della Coca Cola, in cima all’altalena. Fletto le ginocchia sempre meno, per rallentare la velocità e pian piano, fermarmi. La sabbia brucia, come l’acqua di mare negli occhi. E allora, mano nella mano con il nonno, salto da un ombra all’altra, salto file di ombrelloni, fino ad arrivare al mio. In prima fila.
Zia Tina fa l’uncinetto. Mia nonna si unge, che il sole così attacca meglio. Io sto sulla sdraio, seduta. Aspetto la mia merenda. La focaccia del mare è la più buona del mondo, sa di sale ed è morbida di olio. La nonna la compra all’alimentari del Lido, sulla strada che taglia l’Italica, ne strappa un pezzo da bambini e me la porge. Io la finisco veloce, perché la rivoglio sempre due volte. Le bibite si bevono con la cannuccia, nelle bottiglie di vetro che ci soffi dentro e gonfiano come l’acqua della pasta quando bolle. Quando faccio merenda i miei mi dicono di stare all’ombra. E la sabbia, all’ombra, diventa buona. Sarà per questo che la mamma mi distende l’asciugamano a terra e io, accovacciata di lato, allungo le mani per toccarla, per sentirla fresca, sulla pelle.
La mia estate profuma. Quando dalla città, prepariamo l’auto per andare al mare io riesco già a sentirne l’odore. Sa di legna, appoggiata sulla battigia, di coltellacci a riva, di telline da tirare su con la rastrelliera. E sa di more, quelle da raccogliere sulle Muretta, nei giorni che non si va sulla spiaggia. Io e Nicola ci arrampichiamo per prenderle, riempiamo i ciottoli di latta, le laviamo con l’acqua ghiaccia di Camaiore. E le mangiamo, seduti in una poltrona in due, davanti alla tv. Dalla zia Jone, al mare, si beve l’acqua dal ramaiolo. E’ ammaccato dal tempo, appoggiato al muro, sul lavabo di marmo. Io voglio sempre bere per prima che non mi giovo degli altri. E allora corro veloce, faccio scendere presto l’acqua, giù, a fontana. Fin quando, fredda da far rabbrividire lo stomaco, merita di essere bevuta. Mia mamma, quando mi vede fare così urla. Dice che mi un giorno o l’altro mi verrà una congestione. A me non interessa. Che può farmi un po’ di acqua tirata giù veloce?
Niente, in fondo io posso fare tutto. Posso correre, dalla chiesa, fino all’arco del Comune. Segnare quadrati a terra, sul cemento, con i sassi e giocare zoppino. Arrivare fino alla casa delle due sorelle pazze, che la mamma mi ha detto di non avvicinarmi neppure se mi salutano. Fare i primi tre scalini esterni che conducono al portone e poi, con Nicola, scappare a gambe levate. Con il cuore in gola, che batte. Batte e ancora batte. A Camaiore sembra che ci sia racchiuso il mondo.
C’è il profumo della vita, il sole che alle due del pomeriggio ti toglie le forze e ti fa arrancare. C’è Macò, il down rinchiuso che urla, dalla finestra di camera sua e lo senti in tutto il paese. C’è ombra e luce.
L’ombra di Via Vittorio Emanuele, là dove c’è la chiesa, espongono i morti e ho paura solo a passarci. Là dove c’è la Misericordia, che anche quando ha il bandone ammezzato, ci si vedono le bare. Allora chiudo gli occhi e chiedo alla mamma. “Lo abbiamo sorpassato? Posso aprirli?”. Le Muretta invece sono il sole, il cielo che lo guardi e ti viene di respirarlo tutto quanto. Sono le Apuane, che in certi giorni ti sembra di poterle toccare. Sono la mia famiglia, in posa, fuori casa che si stringe per fare la foto di gruppo con la polaroid.
Sono i miei ricordi. Oggi così vicini da desiderare di poterli toccare di nuovo.
“L’estate sta finendo…oggi diventi grande”. Così mi disse più o meno mio padre, dandomi una pacca sulle spalle con lo sguardo dritto verso l’orizzonte. Avevo sei anni e a settembre avrei frequentato la prima elementare. Avrei lasciato alle spalle gli anni dell’asilo, avrei dovuto imparare a leggere, a scrivere, a contare con i tappi smerlati dei succhi di frutta. Il babbo mi disse che in terza elementare sarei anche potuto andare a scuola da solo, attraversando l’unica strada che divideva casa mia dalla Duca degli Abruzzi. Gli ombrelloni blu, scoloriti di sole, erano tutti chiusi. La sabbia morbida non conosceva orme, solo il segno della rastrelliera del bagnino che dalla riva accarezzava la rena fino allo stabilimento. Il temporale del giorno prima aveva segnato la fine dell’estate e l’aria fresca mi ricordava che settembre era alle porte. Sarei diventato grande. Un po’ mi faceva paura questa cosa.
Cosa sarebbe cambiato?
A me, a dire il vero, i grandi non piacevano un granché. Avrei preferito diventare vecchio piuttosto che grande. I vecchi erano fertili di sorrisi e mi regalavano le caramelle alla menta. Mi difendevano quando la mamma mi brontolava e le gonne larghe della nonna erano il posto nel quale mi riparavo più volentieri. Lì ero al sicuro. Ai miei occhi i grandi erano sempre troppo tristi, non giocavano mai, ridevano poco e quando lo facevano non ne capivo bene il perché. I grandi non erano felici, ne ero certo. E poi la mamma mi aveva detto che quando sarebbe iniziata la scuola avrei dovuto giocare di meno e pensare a studiare. E perché mai?. Io volevo rimanere bambino. Io stavo bene così, perché avrei dovuto cambiare la mia condizione proprio adesso?
Anche mia sorella, maggiore di me di ben cinque anni, era diventata grande alla fine di una calda estate. Ricordo che piangeva. Aveva la faccia corrosa di lacrime, mentre belava di tormento. Invocava il nome di mia mamma come se stesse per morire. Corsi da lei e mi resi conto che il suo costumino bianco all’uncinetto era intriso di sangue vivo, rosso come quello che mi usciva dalle ginocchia quando cadevo con la bici sui sassi. La mamma la coprì con un asciugamano e la strinse forte. La baciò sulla fronte per tranquillizzarla, poi le disse. “Tesoro mio, non preoccuparti. Non è successo niente. Sei solo diventata grande. Adesso non sei più una bambina, sei una donna”.
A settembre iniziai la scuola e alla fine la mia vita non cambiò poi molto. Crebbe il numero dei miei amici e imparai a leggere ed a scrivere. Feci cinque centimetri in un anno e risultai tra i più alti della mia classe. Per il resto mi sentivo sempre lo stesso. Ero sempre io. Marco, figlio di Francesco Morandi e Anna Semplici.
Ripenso a tutta quella storia, seduto su un patino addormentato sulla spiaggia. Sono sempre io. Con quarant’anni e un matrimonio finito ieri, con l’estate che se ne sta andando anche senza i temporali che adesso, nel 2009, non ci sono arrivano più, regolari, a lasciare spazio all’autunno. Settembre giungerà lo stesso e non mi ricorderà che si diventa grandi. Io però forse lo dirò ai miei figli e così faranno a sua volta loro, tra qualche anno. Avevo ragione, crescere è una gran fatica. E la vita scorre mentre rincorri progetti. Rincorri scalini da salire. Gradini che ti dicono che sei arrivato, che sei un grande. Studiare, laurearsi, lavorare, fare carriera. Sposarsi, avere figli, prendere il mutuo, far sì che il tuo matrimonio sopravviva al tempo che incede. Mi sembra di sentire la mano di mio padre che mi batte ancora sulla spalla e il suo sospiro disperso nell’orizzonte. Adesso è un vecchio. Felice dei suoi nipoti come tutti i vecchi. E io sono sempre il solito figlio scontento, sono un cliché. Ma ho in serbo grandi cose per me. E correrò ancora. Il mare mi aspetterà come ogni anno e ogni estate, quando gli ombrelloni saranno chiusi e le spiagge vuote. Tirerò le somme, contando con i tappi smerlati dei succhi di frutta, come facevo a sei anni. Quando sono diventato grande. Per la prima volta.
Per la foto ringrazio Nuvola Rapida e le sue immagini di Flickr! Vuoi vedere il suo album? Clicca qui!
Il racconto mi è stato ispirato dallo status di Facebook di Marco Liorni…parlava dell’estate che finisce! Vuoi vedere il profilo di Marco su FB? Clicca qui!
Non ho mai amato il mondo tirato a lustro, né le luci che nascondono nefandezze. Ho sempre creduto che le cose belle stessero nei posti meno noti, negli angoli lontano dal caos, dove non c’è troppo rumore. Dove si respira piano e si procede a passo lento. Meditavo su queste cose mentre un paio di infradito consunti mi accompagnavano per i vicoli dell’isola verde. Il sole filtrava tra i muri delle case corrose dal salmastro e il vento morbido mi velava i pensieri. Era il giorno del mio compleanno ed avevo scelto quell’isola per scappare lontano. Non avevo soppesato troppo su cosa mi avrebbe offerto quel luogo. Volevo solo andarmene da casa mia per una settimana, lasciare le bollette da pagare sul mobile vicino alle chiavi dell’auto, dare un ultimo sguardo alla scrivania sulla quale riversavano pile di fogli sui quali lavorare e andarmene. Staccare l’interruttore della luce, chiudere internet, vestirmi di niente e partire. L’isola verde era il mio posto nel mondo. Me ne accorsi appena arrivata, scesa dall’aliscafo che aveva tagliato veloce le acque del Golfo di Napoli per portarmi lì. In quel pezzo di terra baciato dal sole, fertile come la campagna toscana, dove i fichi crescono grassi arrampicandosi sul Monte Epomeo, dove i pomodori rossi incendiavano di colore i miei occhi vogliosi di annusare quel mondo sconosciuto. Vecchie donne rugose vendevano frutta per strada, appoggiata in cassette di legno che sapevano della mia infanzia. Mi ricordavano Camaiore e il sapore succoso delle frutta, i pesci che correvano tra le acque del Teneri, i girini a cui davo la caccia con mio cugino Flavio. Chiusi gli occhi mentre i colori dell’Isola mi venivano incontro. Inspirai lentamente così che il profumo del mare mi tornasse dentro, come cinquant’anni fa. Le campane delle chiese suonavano tutte insieme, riecheggiando dal porto al Ponte fino al Castello Aragonese. Accompagnarono il mio cammino fino a quando non mi appoggiai sul muro rosa di una casa che scendeva alla spiaggia dei Pescatori. La nuca strusciava sull’intonaco sporco di mare mentre il caldo mi bagnava la mente. Mi lasciai scivolare a terra, con le mani che abbracciavano le ginocchia e rimasi lì, ad ascoltare quel mondo. Fatto di voci, di qualche motorino truccato a dovere per correre meglio verso Serrara Fontana, di gabbiani adagiati sull’acqua, di rumore di ricordi mischiato alla gioia di essere lì. E di non desiderare altro se non quello, nel giorno del mio compleanno. Ripresi a camminare fino a che non arrivai a incrociare una traversa di Via Roma, la strada che unisce il porto dell’isola al Ponte. Entrai in Via Francesco Buonocore e mi diressi verso la spiaggia. Lì un piccolo ristorante catturò il mio sguardo. Era così lontano dall’atmosfera luccicante dei locali del porto, dai camerieri che come saette ti si avventano contro sciorinandoti il menu a memoria, accanto a pile di pesce fresco appoggiate su ghiaccio tritato. Assuntina se ne stava appena fuori dal locale, con il grembiule legato in vita e un sorriso vero stampato sul viso. Mi ispirò subito simpatia e le chiesi se potevo accomodarmi. Scelsi di stare all’aperto, così da avvertire il profumo del mare. D’intorno solo case, vecchi i cui volti sporgevano tra verdi persiane sgretolate, cani che passeggiavano solitari. Silenzio di pace, armonia terrena. Mi sentii subito a mio agio, accomodata su una sedia di plastica, proprio sotto al tendone a strisce bianche e blu dove si leggeva a chiare lettere il nome del ristorante. Sorseggiai dell’ottimo vino bianco, fresco come l’acqua del mare al mattino e gustai i sapori dell’isola verde. Mi rallegrarono occhi, cuore e palato. Mi regalarono emozioni per come erano stati cucinati, sapientemente accostati, dosati con maestria di massaia. Gli spaghetti San Pietro erano un’esplosione di colori tanto che quasi provai dispiacere nel mangiarli. Il nero delle cozze spiccava tra le foglie del basilico e i pomodori ammezzati, lasciati appena appassire in padella. Le vongole aperte come fiori di mare mi ricordavano le telline strette e lunghe che mio padre pescava con la rastrelliera, al mattino presto, sulle spiagge del Lido di Camaiore. Rimasi lì ben oltre il tempo di pranzare. Assuntina mi parlò dei suoi piatti, della caponata come viene fatta in Campania, del suo amore per Firenze, del coniglio all’ischitana, di quel pezzo di mondo che sorge ai piedi del Monte Epomeo, aggredito nei secoli da Saraceni e Turchi, fecondo di acque preziose, di una natura rigogliosa e amica. Ero ancora seduta vicino ad Assuntina che si sfregava le mani sul grembiule quando maturai la certezza che l’isola verde mi aveva fatto il più bel regalo di compleanno. Lì avrei vissuto per sempre. Senza l’agenda fitta di impegni, senza l’auto nuova e i giorni del calendario. Presi l’orologio e lo gettai in mare. Comprai un cappello di paglia da cinque euro e corsi verso la spiaggia. Il mio mondo adesso era lì. Sentii come un abbraccio di vento scaldarmi l’anima e guardai verso il cielo e poi di nuovo in mare. Un vecchio tirava la rastrelliera mentre il sole calava a picco nell’acqua rendendo Procida all’orizzonte solo una macchia scura. Mi vide, alzò la mano per salutarmi, poi l’avvicinò dritta all’altezza degli occhi, come fanno i marinai per ripararsi dal sole. Mi avvicinai e scomparve nella luce del mio cinquantanovesimo compleanno.
Dedico questo racconto a mia madre, proprio oggi compie gli anni! Ecco il suo profilo su Facebook e ringrazio Assuntina per aver deliziato con la sua maestria le mie cene ad Ischia. Se passate dall’isola verde non perdete tempo, correte da lei!
Ristorante Da Assuntina – Via Francesco Buonocore, 29 – Ischia Porto – Tel.081-983693
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