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Cuore acustico

casse

Quando mia madre decise di impiantarmi un cuore con le casse acustiche non è che ne fossi molto contento. Sentivo rimbalzare la voce dallo sterno allo stomaco, provocandomi sussulti improvvisi. C’era una sorta di aria rumorosa che si faceva strada dentro di me, estranea . Di certo non era la benvenuta. Quando suonava il rock ‘n roll però che gioia. Una scarica elettrica mi percorreva i capelli rosso fuoco, incendiati come i campi di grano in estate. E le efelidi si coloravano vistose sui piedi scalzi che correvano per la campagna. Saltellavo tra le zolle di terra mentre il ritmo aumentava i battiti del cuore. Pulsava nervoso come quando si fa l’amore. Pompava sogni. Vibrava come le corde della chitarra schiacciata sul manico da dita sicure in mezzo ad accordi stonati. Mi rimbalzava nell’anima senza farci troppo caso. Mia madre decise di impiantarmi quelle casse così, per sfizio terreno. Ero il primo sulla terra ad avere un cuore acustico. Una sala prove impiantata tra vene, sangue e carne da macello. Qualche colpo di batteria mi faceva sussultare, di notte. Ero un diverso. L’unico a dover convivere con corpo estraneo e rumoroso dentro di sé. Un apparecchio che non si poteva spengere. Non bastava staccare la luce, togliere le pile, staccare la spina. La musica partiva con lo scorrere del sangue. Se avesse smesso di suonare sarei morto. E così continuai a convivere con quello strano oggetto metallico che mi suonava dentro. Mangiavo mentre Boy George cantava Karma Chameleon. Di pomeriggio prima dell’aperitivo delle sette partiva Bryan Adams con Summer of 69. Di solito cuore acustico metteva pure il replay. A volte, quando proprio era in vena, si divertiva a mixare qualche brano. Solo la notte mi concedeva riposo. Ma io sentivo qualcosa di troppo metallico girovagarmi dentro. Avrei voluto anche io un cuore come tutti. Rosso come quelli che Cupido trafiggeva sull’onda del mito, che pulsasse per un’emozione e non sull’onda del ritmo della techno. Una notte pregai Iddio perché mi regalasse un cuore vero. Piansi e avvertii le lacrime scendere lungo la gola fino a far presa sulle casse acustiche. Ci fu un black out. Il corpo si spense, chiuse i battenti. Nessun rumore, se non quello della mia voce. Nessuna nota invasiva e invadente. Ero vuoto di scariche elettriche, di ritmi danzanti. Toccai il petto, non avvertendo più la spigolosità delle casse. Avvertii la carne aderire morbida allo sterno, la pelle rilassata. La musica adesso avrei solo dovuto ascoltarla. Avrei potuto scegliere. Quella notte avevo ospitato Betta a casa mia. Mi sentì sussultare e corse verso di me. Allargò le braccia e mi strinse. Claudio Baglioni non cantò “Questo piccolo grande amore” e io fui libero di amarla per sempre. E la musica, stavolta, non era più solo rumore.

In una piovosa mattina di ottobre, l’idea di questo racconto è arrivata dopo aver letto lo status su Facebook di Benedetto Ferrara che scriveva: “Cuore nostalgico e una traccia di nostalgia”. Vuoi leggere il suo blog Rock &Goal su Repubblica.it, clicca qui!

Brandelli di cuore

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Muove il vento le foglie del mio giardino e la loro ombra sul pavimento di casa le fa assomigliare ad acqua increspata. Sembrano foglie di limoni baciate di sole e il cielo mi appare come un’immensa distesa di mare. Sono in città e agosto sta finendo. Le mie ferie sono concluse, il frigo è vuoto e l’amore è ancora troppo lontano, almeno quanto la prossima estate. Guardo fotografie a colori che diventano dettagli da poter ingrandire sullo schermo del portatile, per ricordare meglio cosa ne è stato di ieri. Sul tavolo di casa finte margherite galleggiano in un vaso pieno zeppo di sabbia e mi ricordano che dovrei passare davanti ad uno specchio e spogliarmi delle cazzate che mi grondano addosso come pioggia insolente.

Ho solo ventisei anni. E i miei genitori quando sono nata hanno avuto la geniale idea di chiamarmi Gioia. Peccato che io, a differenza ciò che speravano per me, non sono affatto felice. Non so nemmeno cosa sia la gioia. Conosco piuttosto la malinconia devastante e impetuosa, vivo una felicità fatta di attimi, che non conosce spazi duraturi ma solo sfavillanti momenti di breve durata. Che non superano il tempo di un film, di una cena, dei fuochi arficiali. Che non vanno oltre il tempo di un esame, di una vacanza, di un sogno. E poi puf! Diventano niente. Crollano come fondamenta deboli, si sgretolano come la pelle bruciata dal sole.

“Gioia tesoro – legati quei capelli che ti si riversano sugli occhi. Hai un’aria così trasandata”. Sento la voce di mia madre, appena affacciata sul terrazzo. Annaffia le piante, getta via le foglie secche. Passo un dito al centro della montatura degli occhiali, per avvicinarli di più al naso. Per vederci chiaro mentre gli occhi affogano di lacrime. La voce di mia madre mi irrita in quel giorno così perfetto. Sarebbe un giorno bellissimo se solo fossi felice. C’è il fresco, il sole, c’è un aria bella da respirare. Ho ventisei anni. Ventisei. Che faccio qui, immobile di paura, avara di sogni? Aspetto un amore troppo lontano perché possa tornare. E mi accontento di niente, lasciando che il vento asciughi le guance bagnate e che il tempo rimetta insieme brandelli di cuore spenti di battiti.

“Gioia, cosa vuoi per cena stasera?”. Gioia? Gioia?!”.

Ho fame di felicità. Ma questo, mamma, non posso dirtelo.

Questo racconto mi è stato ispirato da due parole scritte da un amico di Facebook: Luca La Rocca. Vuoi vedere il suo profilo? Clicca qui!

Per la foto ringrazio Bimba81, andate a vedere il suo album su Flickr: cliccate qui!!!