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Il passaggio segreto

Avevamo i grembiuli bianchi, noi femminucce. Mia madre aveva pensato bene di farci ricamare sul petto le mie iniziali, in blu. Con caratteri classici, rotondeggianti, proprio come quelli che si imparavano a scuola. Ne andavo fiera, distinguendomi dagli altri. Mia nonna si assicurava che il bianco del mio grembiule fosse sempre impeccabile. Strofinava a mano, nel lavatoio, passando il sapone con forza sul cotone che – all’epoca – era ancora buono. E poi lasciava che asciugasse, nell’ombra del giardino di casa nostra, quando ancora c’era un po’ di felicità.

Gli anni Ottanta non erano malvagi. Scuola mia era una grande struttura di epoca fascista. Non che nessuno me l’abbia detto mai ma si riconosceva dall’architettura, lineare, rigorosa. Priva di qualsiasi ammennicolo creativo. Nella mia aula il sole entrava da grandi finestroni, altissimi. Avevamo imparato a contare grazie ai tappi smerigliati dei succhi di frutta e a scrivere riconoscendo le lettere dai cartelloni che la maestra aveva attaccato al muro, proprio dietro la sua cattedra. Ad ogni lettera dell’alfabeto corrispondeva un disegno, un oggetto. “A” come Albero, “B” come banco, C come Casa, D come Dado. E così via.

Lei aveva la veste nera che le aderiva perfettamente al personale di donna che non si era mai sposata. Non aveva fianchi da mamma insomma. Sembrava perfetta. I capelli biondi cotonati, le mani affusolate, gli occhi di ghiaccio di chi viene dal Nord ma ama il mare. Ci ha raccontato la sua storia miliardi di volte, Laura Mondo. Era nata a Pola, in Istria. E ogni volta che parlava della sua città natale ci teneva a ribadire con un senso di nazionalismo  importante – che non ho mai più sentito nella voce di nessuno  – che lei si sentiva italiana. Anzi, lo era. Così si trasferì a Trieste, la città della Bora. Studiò, divenne maestra. Girò l’Italia, come tocca a chi decide di fare questo mestiere. Poi arrivò in Toscana e divenne la mia maestra.


Se un giorno avrò mai un figlio penso che vorrei per lui una maestra così. Anzi, vorrei proprio lei. E una scuola come quella che ho fatto io, buona a insegnarti le cose migliori, a saltare la cavallina nell’ora di ginnastica. A cantare, quando era tempo di fare musica. A scoprire che forma aveva il mondo, su quelle cartine geografiche gigantesche, appese ai muri bianchi e imponenti. I continenti sembravano schiacciati e l’America non era così lontana.

Era l’epoca dei Kinder Brioche e della Girella, di Barbie e Ken, dei Righeira e di Luis Miguel. Le mie compagne andavano pazze per i Duran Duran e gli Europe. Madonna era già un mito. Io ascoltavo Luca Barbarossa e lo immaginavo a suonare la chitarra a Piazza Navona. “Cioè” era il giornalino con la copertina adesiva che non poteva mancare a casa di ogni bambina che si avviava verso l’adolescenza.

L’ora di ricreazione era scandita da un lungo suono della campanella. Vibrante. Potente. Il gigantesco portone della scuola si apriva mentre correvamo verso il giardino. Io scappavo sempre sul retro, sperando che il nonno fosse venuto a trovarmi. E lui c’era. Eravamo divisi dalla cancellata ma riusciva comunque a far passare le sue mani grandi attraverso la ringhiera e accarezzarmi le guance calde. Non mi ricordo cosa ci dicevamo in quei brevi incontri, so solo che avevamo un segreto speciale. Avevamo scoperto che in un punto della cancellata mancava un paletto. Riuscivo a passare benissimo attraverso quello spazio celato al mondo. Così potevo uscire, abbracciarlo e tornarmene dentro dopo qualche secondo. Era un segreto da niente ma per me era una strada verso la libertà. Se avessi avuto mai bisogno di scappare quello sarebbe stato il mio passaggio segreto. Lui mi salutava alzando le mani fin quando non mi vedeva scomparire, correre dietro l’angolo, salire i gradini tre alla volta e tornare in aula.

Casa sua era a dieci, venti metri dalla scuola. Ci separava la chiesa di Santa Maria. Le chiese, sopratutto quella, non mi sono mai piaciute. Non sopportavo andare a catechismo, ingoiare sermoni da chi crede di avere in mano la verità. Non sopportavo il prete che mi confessava e, a otto anni, mi chiedeva quali fossero i miei peccati. Ci pensavo su. Beh, erano tutti peccatucci di poco conto. I rifiuti ai miei genitori quando mi chiedevano di andare in cantina a prendere le bottiglie d’acqua e a me faceva fatica fare le scale. Un pizzicotto a una compagna che non voleva giocare. Qualche piccola bugia, forse. Lui mi invitata a pregare per espiare i miei peccati. Tre Ave Maria, cinque Padre Nostro. Amen. Sciorinava la mia pena come se fosse una ricetta contro l’influenza. Con quella freddezza che solo i medici sanno avere quando hanno da dire a qualcuno che deve morire.

A quel prete, a quella chiesa che non sentivo come la casa di tutti, preferivo il Bar dove mio nonno andava a giocare a carte e il giardinetto davanti casa sua, dove portavamo Pippo, il barboncino di mia nonna a prendere aria e a fare i suoi dovuti bisogni. Preferivo quei posti fumosi dove c’erano i flipper e si potevano mangiare gelati con cinquecento lire o forse anche meno. Lì c’era più vita. Sana, succosa, divertente. Imperfetta sicuramente. Ma era luminosa anche in mezzo al fumo dei vecchi. Ai biliardi che vedevano correre morbide palle pesanti, cadere birilli in mezzo al panno verde. Al giardino dove c’era la mia pista di pattinaggio, il vento a cui vai incontro quando sei sulle rotelle e la velocità sembra la cosa più bella mai provata. Una gamba, poi l’altra. Avanti, con il pattino pesante che diventa improvvisamente leggiadro, leggero.

A casa mi aspettava il Sussidiario, per imparare la Storia. I Greci, i Sumeri. I Romani. Mi piaceva. Soprattuto il Medioevo. Quel periodo di luci e ombre che mi assomiglia un po’. Mi ci immedesimavo nella Storia, come in una battaglia tra Guelfi e Ghibellini. Come in un film o quando leggi un libro e ti immagini i personaggi. Adoravo le lotte tra i Papi e gli Imperatori. Io stavo sempre per l’Imperatore. Ambizioso, passionale, carnale. Umano.

Chissà la Maestra per chi tifava. Non ha mai dato a vederlo.

Laura Mondo conservava da anni i quaderni dei suoi alunni migliori. E ce li mostrava, di anno in anno. Erano quaderni vecchi di vent’anni, con la carta ingiallita dal tempo. Ma l’inchiostro rosso della maestra era ancora acceso. C’erano scritti i voti, in fondo ad ogni compito. Bravissimo o Bravissima, a volte con il punto esclamativo alla fine. Se c’era quello vuol dire che avevi fatto il massimo. Era un dieci e lode anche se i numeri, negli anni Ottanta, non si usavano più. Dalla prima alla quinta elementare prese anche alcuni dei miei quaderni. Io ne ero felice. Pensavo a quando sarei andata alle medie e lei li avrebbe mostrati orgogliosa ai nuovi alunni. In realtà noi fummo la sua ultima classe. Decise di smettere di insegnare. E io rimasi molto delusa. I miei quaderni eccellenti non li avrebbe mai visti nessuno.

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La vecchia Seicento bianca di Laura Mondo, con la carrozzeria perfetta e la targa nera, non sarebbe più rimasta parcheggiata per l’intera mattina davanti alla scuola. La sua Aula l’avrebbe presa un’altra insegnante, più giovane, di cattedra fresca. I nostri disegni, appesi al muro, a colorare quelle pareti tanto bianche sarebbero stati staccati ad uno ad uno, come ogni anno. Archiviati, come sempre.

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Oggi al posto della mia scuola che, nel frattempo, è rimasta chiusa per anni e anni c’è la Biblioteca Comunale. Ci sono entrata un paio di volte. Solo per rivedere la mia classe, scorgere quella finestra grande, vicino al mio banco. Adesso lunghi scaffali incrociano gli occhiali di qualcuno che è lì per studiare. Sento ancora le risate di Marina, vicino a Gabriele. Alessio e Serena erano al banco dietro di loro, lei solare, lui intelligente e silenzioso. Io ero in un banco a tre, tra Antonella e Sandrino, dispettoso come nessuno. Ma vivace, simpatico. Lisci capelli neri corvini, piccoli denti bianchissimi. Era interista. Poi c’era Marco, biondo e magro, con il cognome della più grande industria dolciaria italiana. Era il mio amico del cuore o almeno le nostre mamme avevano deciso così. Litigavamo sempre su chi doveva tenere Ken, nei pomeriggi a casa mia. Quando invece andavo nella sua villa sulle colline, scappavamo nel parco, alla ricerca di chissà quale mistero che poteva nascondersi tra mura imponenti e pietra serena. A casa sua a merenda, alle cinque del pomeriggio si prendeva rigorosamente il the con il latte. Io preferivo le lunghe fette di pane e nutella che ci preparava la mamma di Filippo, quando il giovedì eravamo a studiare da lui.

Strano ripensarci oggi, a tutto questo. Ai miei compagni. Alla mia maestra. A quella scuola trasformata in biblioteca. La cancellata tra il cortile delle elementari e la pineta è ancora lì. Mi dà emozione. Vorrei andarci, adesso. Infilare la mano nello spazio antico, tra le inferriate mancanti di un paletto dove riuscivo a far passare il corpo di bambina, di nascosto dall’Insegnante. Per abbracciare mio nonno. Sorridergli. Sentire suonare la campanella.  Correre verso la libertà. Così, semplicemente felice.

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Da grande

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“L’estate sta finendo…oggi diventi grande”. Così mi disse più o meno mio padre, dandomi una pacca sulle spalle con lo sguardo dritto verso l’orizzonte. Avevo sei anni e a settembre avrei frequentato la prima elementare. Avrei lasciato alle spalle gli anni dell’asilo, avrei dovuto imparare a leggere, a scrivere, a contare con i tappi smerlati dei succhi di frutta. Il babbo mi disse che in terza elementare sarei anche potuto andare a scuola da solo, attraversando l’unica strada che divideva casa mia dalla Duca degli Abruzzi. Gli ombrelloni blu, scoloriti di sole, erano tutti chiusi. La sabbia morbida non conosceva orme, solo il segno della rastrelliera del bagnino che dalla riva accarezzava la rena fino allo stabilimento. Il temporale del giorno prima aveva segnato la fine dell’estate e l’aria fresca mi ricordava che settembre era alle porte. Sarei diventato grande. Un po’ mi faceva paura questa cosa.

Cosa sarebbe cambiato?

A me, a dire il vero, i grandi non piacevano un granché. Avrei preferito diventare vecchio piuttosto che grande. I vecchi erano fertili di sorrisi e mi regalavano le caramelle alla menta. Mi difendevano quando la mamma mi brontolava e le gonne larghe della nonna erano il posto nel quale mi riparavo più volentieri. Lì ero al sicuro. Ai miei occhi i grandi erano sempre troppo tristi, non giocavano mai, ridevano poco e quando lo facevano non ne capivo bene il perché. I grandi non erano felici, ne ero certo. E poi la mamma mi aveva detto che quando sarebbe iniziata la scuola avrei dovuto giocare di meno e pensare a studiare. E perché mai?. Io volevo rimanere bambino. Io stavo bene così, perché avrei dovuto cambiare la mia condizione proprio adesso?

Anche mia sorella, maggiore di me di ben cinque anni, era diventata grande alla fine di una calda estate. Ricordo che piangeva. Aveva la faccia corrosa di lacrime, mentre belava di tormento. Invocava il nome di mia mamma come se stesse per morire. Corsi da lei e mi resi conto che il suo costumino bianco all’uncinetto era intriso di sangue vivo, rosso come quello che mi usciva dalle ginocchia quando cadevo con la bici sui sassi. La mamma la coprì con un asciugamano e la strinse forte. La baciò sulla fronte per tranquillizzarla, poi le disse. “Tesoro mio, non preoccuparti. Non è successo niente. Sei solo diventata grande. Adesso non sei più una bambina, sei una donna”.

A settembre iniziai la scuola e alla fine la mia vita non cambiò poi molto. Crebbe il numero dei miei amici e imparai a leggere ed a scrivere. Feci cinque centimetri in un anno e risultai tra i più alti della mia classe. Per il resto mi sentivo sempre lo stesso. Ero sempre io. Marco, figlio di Francesco Morandi e Anna Semplici.

Ripenso a tutta quella storia, seduto su un patino addormentato sulla spiaggia. Sono sempre io. Con quarant’anni e un matrimonio finito ieri, con l’estate che se ne sta andando anche senza i temporali che adesso, nel 2009, non ci sono arrivano più, regolari, a lasciare spazio all’autunno. Settembre giungerà lo stesso e non mi ricorderà che si diventa grandi. Io però forse lo dirò ai miei figli e così faranno a sua volta loro, tra qualche anno. Avevo ragione, crescere è una gran fatica. E la vita scorre mentre rincorri progetti. Rincorri scalini da salire. Gradini che ti dicono che sei arrivato, che sei un grande. Studiare, laurearsi, lavorare, fare carriera. Sposarsi, avere figli, prendere il mutuo, far sì che il tuo matrimonio sopravviva al tempo che incede. Mi sembra di sentire la mano di mio padre che mi batte ancora sulla spalla e il suo sospiro disperso nell’orizzonte. Adesso è un vecchio. Felice dei suoi nipoti come tutti i vecchi. E io sono sempre il solito figlio scontento, sono un cliché. Ma ho in serbo grandi cose per me. E correrò ancora. Il mare mi aspetterà come ogni anno e ogni estate, quando gli ombrelloni saranno chiusi e le spiagge vuote. Tirerò le somme, contando con i tappi smerlati dei succhi di frutta, come facevo a sei anni. Quando sono diventato grande. Per la prima volta.

Per la foto ringrazio Nuvola Rapida e le sue immagini di Flickr! Vuoi vedere il suo album? Clicca qui!

Il racconto mi è stato ispirato dallo status di Facebook di Marco Liorni…parlava dell’estate che finisce! Vuoi vedere il profilo di Marco su FB? Clicca qui!